Dieci filiali bancarie in poco più di 48 ore: il bilancio della “guerra dei depositi” in Libano sta assumendo dimensioni preoccupanti. È delle ultime ore la notizia che solo venerdì otto istituti bancari – sette nella capitale Beirut e dintorni, una nella filiale della Byblos Bank di Ghaziye, villaggio a sud di Sidone – sono stati assaltati dagli ormai disperati correntisti che da quasi tre anni, complici alcune severe e arbitrarie misure introdotte per il controllo dei capitali, non hanno diritto di prelevare i propri fondi in dollari.

Nella capitale Beirut gli istituti presi d’assalto dai correntisti sono due filiali della Blom Bank nell’area di Tariq Jdide, tre filiali della Banca Libano-francaise ad Hamra, al Kafaat e Dahiye (periferia sud) e due filiali della Bankmed e di Fransabank, nell’area di Ramlet el Baida, sul lungomare. Nella filiale di Ghaziyeh, un uomo sulla cinquantina è entrato armato di pistola automatica e dopo aver versato una tanica di benzina per terra è riuscito – prima di essere arrestato – a farsi restituire circa 20mila dollari.

Azioni probabilmente coordinate, ma soprattutto stimolate dagli altri due assalti di mercoledì scorso: nelle prime ore della mattina, una donna di nome Sally Hafiz, insieme ad alcuni suoi sodali, era entrata in una filiale Blom Bank dell’elegante quartiere di Sodeco, nella parte est della capitale, armata di quella che poi si è rivelata essere una pistola giocattolo per ottenere l’accesso ai propri risparmi in valuta forte, circa 13mila dollari, per poter pagare costose cure anti-cancro alla sorella. Nelle stesse ore ad Aley, a sud della capitale, un uomo armato è stato arrestato dopo che era riuscito a imporre a una filiale bancaria la restituzione di circa 30mila dollari congelati da tre anni sul suo conto.

Il “peccato originale” è persino precedente. A spingere un numero sempre maggiore di libanesi a ricorrere a questo genere di mosse disperate era stato già quanto accaduto lo scorso 10 agosto: in quell’occasione, un uomo armato di nome Bassam Sheikh Hussein, 42 anni, aveva preso in ostaggio per alcune ore clienti e impiegati in una filiale della Federal Bank del quartiere commerciale di Hamra per poi arrendersi alle forze di sicurezza, non prima di essere riuscito però a pattuire la restituzione di circa 30mila dei 210mila dollari bloccati sul suo conto corrente.

Durante l’assalto, decine di persone si erano radunate al di fuori dell’istituto intonando cori a favore dell’assalitore e contro le misure imposte sul sistema bancario. Sui social media il sostegno generale a queste azioni appare come moltiplicato per dieci. In modo molto significativo, Hussein era stato poi scagionato da ogni accusa dal pubblico ministero Ghassan Oueidat e la banca stessa aveva ritirato la denuncia.

“La guerra per la riappropriazione dei nostri risparmi è iniziata e non ci fermeremo finché i nostri diritti non verranno ripristinati”, le parole della Mouttahidoun, il sindacato dei depositanti libanesi, a margine degli assalti multipli odierni, mentre l’associazione delle banche libanesi ha annunciato la chiusura degli istituti in tutto il Paese per tre giorni, a partire dal 19 settembre, proprio a causa degli “attacchi ripetuti”.

Questi assalti sono preoccupanti per diverse ragioni: sono infatti il simbolo della disperazione in cui è precipitata quella che fino a pochi anni fa era la classe media del Paese, oggi praticamente polverizzata, in grado di mandare i figli a studiare all’estero e permettersi delle vacanze estive nella regione. Persone con qualche migliaio o decina di migliaia di dollari di risparmi sul proprio conto, congelati dalle autorità sin da novembre 2019, che stanno facendo i conti con una povertà improvvisa, violenta, inesorabile, in un Paese che già prima della crisi aveva comunque un debito pubblico tra i più alti al mondo, problemi strutturali per quel che riguarda l’insufficiente fornitura di energia elettrica e acqua, nonché una crisi nella raccolta dei rifiuti che nel 2015 aveva prodotto la prima delle grandi proteste della società civile – “tol’it rihetkon”, “Voi puzzate”, riferito ai politici locali responsabili della mala gestione, in un gioco di riferimenti alla spazzatura.

Alla popolazione libanese oggi è permesso prelevare le giacenze solo in lire libanesi, valuta che ha conosciuto un crollo costante del suo valore dal 2019, passando da un cambio col dollaro di 1:1.500 a 1:36.000, con una inflazione senza precedenti nella regione (oltre il 500% su base annua, tra il 2020 e il 2021), ma senza un proporzionale adeguamento dei salari.

A rappresentare invece la disperazione degli abissi del Libano c’è invece quasi l’80% della popolazione che secondo la Banca mondiale si trova oggi sotto la soglia della povertà (era circa il 25% nel 2014). Anche da parte delle fasce di popolazione ancor più deboli, già due anni fa c’erano stati degli assalti che segnalavano uno stato di disperazione difficilmente misurabile: non alle banche ma alle farmacie, con una manciata di episodi tra settembre e ottobre nei quali uomini armati erano entrati in esercizi farmaceutici nel sobborgo di Jdeideh e nell’area di Bchamoun per reclamare pochi euro in contanti, oppure pannolini, latte in polvere e addirittura Panadol, un antidolorifico paragonabile all’aspirina, fino a poco tempo fa molto facile da trovare.

Ora il rischio immediato è quello di inarrestabili fenomeni di emulazione, stimolati anche dal clima di relativa “tolleranza” delle autorità per la disperazione della popolazione che va di pari passo con lo sfaldamento delle istituzioni e della fiducia nelle stesse.

Il Libano sta precipitando pericolosamente nell’anarchia – un’anarchia operativa che è ben rappresentata proprio dall’impunita classe politica, al centro delle contestazioni da almeno tre anni – e a preoccupare c’è anche il silenzioso e paradossale (poiché i trafficanti si fanno pagare in dollari) boom del mercato illegale delle armi, attestato già da una indagine di due anni fa condotta dal quotidiano kuwaitiano Al Anba.

La prossima settimana è attesa in Libano una delegazione del Fondo Monetario Internazionale per discutere di un prestito vincolato ad alcune decise (e dolorose) riforme che tardano ad essere implementate. Lo scorso aprile Beirut e il Fondo avevano raggiunto un accordo di massima per un prestito da 3 miliardi, vincolato appunto ad alcune riforme economiche che il governo di Najib Mikati avrebbe dovuto avviare. Compresa quella del sistema bancario.

Articolo Precedente

Izyum, cadaveri con corde intorno al collo e mani legate: la scoperta nella fossa comune con oltre 450 persone

next
Articolo Successivo

Putin non rinnega la strategia in Ucraina: “Non abbiamo fretta”. E su Kiev: “Controffensiva? La nostra risposta sarà più seria”

next