La crisi della democrazia è comune a tutte le società occidentali. E si manifesta proprio nel periodo storico in cui l’esportazione di questo modello – ancorché supportata da baionette, missili e droni – è diventata un tormentone. Una serie di saggi pubblicati qualche anno fa da The Atlantic e da The New Yorker aveva esplorato a fondo le radici del malessere. In paesi di lunga tradizione democratica come gli Stati Uniti o la Francia, le ragioni sono complesse; così come i segnali e gli esiti. In Italia, le cose sono più semplici. Il segnale più evidente è la legge elettorale con cui si voterà il prossimo 25 settembre, pietra tombale della democrazia rappresentativa. Qualcuno sostiene che una democrazia matura mira alla governabilità, non alla rappresentanza.

E, paradossalmente, la scomparsa della rappresentatività è stata consacrata dalla riduzione dei parlamentari – di per sé sacrosanta e validata da una maggioranza bulgara di cittadini. In pratica, la composizione nominativa del prossimo Parlamento è meno aleatoria della prossima formazione della nazionale di calcio. Per questo le scommesse sono vietate, in Italia; e i siti di scommesse internazionali sono oscurati. Tranne qualche sbadata eccezione, è già tutto scritto: i commessi potrebbero già intarsiare nomi e cognomi sui banchi di Camera e Senato. E sono nomi che, in larghissima maggioranza, erano già scolpiti nella memoria parlamentare. La legge elettorale dello Statuto Albertino era certamente più rappresentativa, secondo lo spirito dei moderni padri del sistema democratico – da John Locke a Thomas Jefferson, Charles de Montesquieu, Alexis de Tocqueville.

Il sistema era fondato sul collegio uninominale a due turni, un meccanismo idoneo a selezionare una rappresentanza delle personalità migliori nel proprio territorio. Nel ballottaggio si votava per uno dei due candidati che avevano ottenuto più voti al primo turno; ed era eletto chi riportava la maggioranza semplice. All’epoca, votavano i maschi maggiorenni alfabetizzati con più di 25 anni che godessero dei diritti civili e politici, che avessero le “capacità” previste dalla legge, che pagassero un censo annuo di imposte dirette di 40 lire; ma erano sufficienti 20 lire in Liguria e in Savoia. La sinistra, al governo con Depretis, cambiò le carte in tavola nel 1882, introducendo lo scrutinio di lista attraverso “un complesso intreccio fra ingegneria istituzionale, tattica di partito in materia elettorale e strategia parlamentare a lungo termine” (v. Ullrich, H., Il sistema elettorale, in: Problemi istituzionali e riforme nell’età crispina, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1992).

Che senso ha, oggi, votare? Il nostro voto può certamente influire sulla prevalenza di una delle due nebulose in competizione – con la sinistra in netto vantaggio sulla destra in quanto a nebulosità – oppure lo stallo. Questa è la situazione favorita da chi agogna un ennesimo governo della Provvidenza, la quale non staziona più nel mondo soprannaturale, ma sembra allignare in quello economico e finanziario. Votare, invece, ha poco senso per gli sprovveduti che interpretano il voto come scelta di un individuo in grado di rappresentare un proprio territorio fisico, culturale, spirituale. E tutti questi sprovveduti, quando se ne rendono conto, si consolano con l’amara ironia di Mark Twain: “Se votare facesse qualche differenza, non ci permetterebbero di farlo”.

Un tempo, l’astensione come mezzo di espressione della volontà politica era sostenuta da sparute minoranze, dagli anarchici ai militanti di sinistra ispirati dal leninismo. Ed era perciò sanzionata dalla legge. In seguito, in ossequio alla lezione di Mark Twain, l’astensionismo è stato riconosciuto nell’ambito dei comportamenti legittimi del cittadino, ridefinendo l’espressione del voto solamente come un diritto e non più come un diritto e un dovere (Leggi 276 e 277 del 1993). E, da molti anni, l’astensione è semplicemente il segnale di un generico malessere sociale, un mal di pancia privo di significati politici.

La vita quotidiana della mia generazione si è assestata su standard assai migliori di quelli dei padri, ma ha perduto la tensione culturale e sociale che aveva sostenuto i nostri padri nel costruire il nostro benessere e vincere la schiavitù. Un secolo fa, il banchiere anarchico di Fernando Pessoa si stupiva per chi accetta la schiavitù: “Come che un individuo nasca per essere schiavo, naturalmente schiavo, e quindi incapace di qualsiasi sforzo per liberarsi. Ma in questo caso… in questo caso, cosa ha a che vedere un simile individuo con la società libera, o con la libertà? Se un uomo è nato per essere schiavo, la libertà, essendo contraria alla sua indole, sarà per lui una tirannia” (F. Pessoa, O banqueiro anarquista, Contemporânea, 1, 1922). Siamo diventati schiavi della tirannia dell’indifferenza? Di fatto, l’indifferenza è favorita se non auspicata dalla nostra democrazia “matura”, tutto men che rappresentativa.

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