Il mondo del lavoro attende che il ministro Andrea Orlando presenti alle parti sociali le sue proposte per il contrasto alla povertà lavorativa. Il tema è già stato oggetto di confronto e l’incontro tra il premier Mario Draghi e i sindacati, al quale sarà presente anche il ministro del Lavoro, potrebbe essere l’occasione per fare sintesi e ufficializzare una proposta. A partire dalla soluzione su quella che Orlando chiama “la via italiana al salario minimo“, da fissare non per legge ma attraverso la contrattazione collettiva, applicando ad ogni categoria il trattamento economico complessivo del contratto maggiormente rappresentativo nel settore. Un passo avanti nella tutela dei lavoratori che però non contempla il salario minimo legale, quello che ad esempio il disegno di legge Catalfo del M5s fissa a 9 euro lordi l’ora per tutti i lavoratori. La differenza è sostanziale: “Se i minimi del contratto maggiormente rappresentativo non sono dignitosi, quello che estendi a tutti i lavoratori è un salario non dignitoso”, ragiona il giuslavorista Piergiovanni Alleva, che ha lavorato in prima persona al testo del disegno di legge sul salario minimo del M5s. “Bene sul fronte della lotta ai contratti “pirata”, male su quello dei contratti “corsari””, commenta l’avvocato Vincenzo Martino, già vicepresidente nazionale dell’Associazione giuslavoristi italiani. “Si tratta di contratti firmati da sigle sindacali rappresentative in quanto aderenti a Cgil, Cisl e Uil, ma che prevedono salari molto bassi, in linea con quelli degli stessi contratti “pirata” e talora sotto la soglia di povertà assoluta”.

Vista la storica contrarietà dei sindacati a un minimo imposto per legge, quel che Orlando va proponendo ormai da mesi è che a fissarlo sia la contrattazione collettiva, settore per settore. Si tratta di dare valore legale ai contratti nazionali più rappresentativi perché diventino l’asticella sotto la quale non si può scendere. La scelta presuppone innanzitutto di sciogliere il nodo della rappresentanza per determinare quali CCNL debbano prevalere. Al netto della volontà politica, una soluzione è già offerta dall’accordo interconfederale del 2014 tra Cigl, Cisl, Uil e Confindustria che definisce le modalità per misurare la rappresentatività di associazioni sindacali e datoriali, e che basterebbe recepire con una legge. In Italia se ne discute da decenni e la novità non sarebbe di poco conto. “Stabilendo il primato della rappresentatività si mettono fuori gioco tutti i contratti siglati da associazioni disoneste, spesso anche con la connivenza di datori di lavoro, quelli che chiamiamo contratti “pirata””, spiega Alleva, già ordinario di diritto del Lavoro a Bologna e Ancona. Ma c’è di più. Con l’estensione a tutti i lavoratori dei minimi salariali previsti dai contratti maggiormente rappresentativi si fissa un valore che diventa uno strumento nelle mani di chi, fino ad oggi, per rivendicare un salario dignitoso doveva affidarsi a un giudice e appellarsi all’articolo 36 della Costituzione. “Basterà che l’Ispettorato nazionale del lavoro o i Carabinieri che con questo collaborano facciano una diffida accertativa per imporre l’immediata applicazione del contratto più rappresentativo nel settore e dei relativi minimi. Poi in tribunale semmai ci andrà il datore di lavoro per opporsi”, spiega Alleva, che sottolinea la portata rivoluzionaria di una scelta che al lavoratore offrirebbe finalmente una soluzione amministrativa, più efficace e immediata.

Fin qui le luci. Ma la strada intrapresa finora da Orlando ha anche alcune ombre. A partire dalla scelta di non affiancare all’estensione della contrattazione più rappresentativa il salario minimo legale, una “soglia della dignità” per tutelare anche i lavoratori coperti dai tanti contratti “corsari“, rappresentativi perché sottoscritti da sigle aderenti a Cgil, Cisl o Uil, ma con retribuzioni basse, anche sotto i 5 euro netti l’ora”. Nel ddl Catalfo la soglia della dignità sono i famosi 9 euro lordi l’ora, quelli che Alleva chiama “la ruota di scorta, per tutelare i lavoratori anche dove la contrattazione collettiva, pur rappresentativa, è pigra o addirittura disperata“. Oltre che da un punto di vista politico, fa notare Martino, la contrattazione “corsara” è più insidiosa anche nella via giudiziaria: “Se a stabilire una retribuzione da fame è un contratto “pirata”, è relativamente facile ottenere che il giudice applichi l’art. 36 della Costituzione e adegui i minimi salariali a quelli dei contratti stipulati dai sindacati rappresentativi. Se invece si tratta di contratto “corsaro”, dove è lo stesso sindacato più rappresentativo a fissare tabelle salariali insufficienti, l’operazione di adeguamento giudiziario dei minimi è assai meno lineare, come dimostrato dall’andamento altalenante delle sentenze sul CCNL Servizi fiduciari, così in voga che ormai viene applicato anche da aziende che operano in settori diversi dalla vigilanza privata perché attirate da salari tanto bassi da garantire l’aggiudicazione degli appalti pubblici”.

Nemmeno la recente Direttiva Ue aiuta a dirimere la questione. Perché obbliga gli Stati membri a stabilire un salario minimo per legge solo nel caso in cui la percentuale di lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva sia sotto una certa soglia. Ma in Italia il grado di copertura è alto. “Tanto che potremmo anche non attuare la Direttiva o addirittura farlo senza che nulla cambi nella sostanza”, avverte Martino, che invita allora a porci un’altra domanda: “La contrattazione collettiva è in grado di proteggere i salari più bassi?“. La risposta negativa dell’avvocato è anche una spiegazione all’ostilità italiana al salario minimo legale: “Negli ultimi 30 anni i salari italiani sono gli unici tra quelli dei paesi OCSE ad aver perso potere d’acquisto. Fissando il tappeto dei 9 euro lordi si darebbe ai lavoratori una vittoria che i sindacati non sono riusciti a conquistare, sarebbe la conferma che hanno fatto male il loro lavoro”. Alleva concorda e aggiunge: “E’ un’occasione persa di intervenire dove la contrattazione collettiva fa acqua, come nel terziario non avanzato, nel turismo, in tanta parte dei servizi o nella logistica, dove l’ultima difesa resta il solito art. 36 della Carta”, commenta Alleva. Che nell’attuale dibattito di occasioni perse ne vede altre e altrettanto pericolose. “In Italia il sottosalario non si fa solo applicando contratti pirata, ma soprattutto con il falso part-time: ti applico un contratto collettivo decoroso e poi in busta scrivo che lavori 24 ore mentre ne fai 40, così ti sottopago ma non do nell’occhio”. E chiude: “Allargare la contrattazione collettiva, dunque, ma servono anche i 9 euro, e poi contrasto deciso al lavoro grigio delle false buste paga e al lavoro nero, altrimenti parlare di contrasto alla povertà lavorativa è inutile”.

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