Cosa cambia per l’Italia dopo l’accordo europeo sulla direttiva per “un’equo salario minimo”? Nonostante il ministro del Lavoro Andrea Orlando lo definisca “un assist per i lavoratori“, poco. Perché stabilire quale debba essere un livello “adeguato” di salario minimo è innanzitutto una scelta della politica e quella italiana resta divisa, governo compreso. Ma non solo. Nei ventuno paesi Ue che l’hanno già adottata, la misura è il frutto di una concertazione tra le parti sociali che da noi è ancora tutta da costruire. Non è nemmeno questione di favorevoli e contrari, che già sarebbe un passo avanti. No, in Italia siamo ancora alle opinioni in ordine sparso. All’indomani dell’accordo, infatti, dalla politica ai sindacati ognuno interpreta la notizia come gli fa più comodo. Di “accordo storico” parla l’ex ministro del Lavoro e attuale titolare degli Esteri, Luigi Di Maio, di “pacco per i lavoratori” il capogruppo di Forza Italia in commissione Affari esteri al Senato, Enrico Aimi. E se l’Unione sindacale di base (Usb) propone di fissare il salario minimo per legge a 10 euro, Uil e Cisl preferiscono sottolineare che la direttiva “indica che ciò può avvenire anche attraverso il rafforzamento della contrattazione collettiva, la strada che abbiamo indicato e che condividiamo”.

Premessa: l’accordo raggiunto a Strasburgo tra Commissione, Parlamento e Consiglio europei non imporrà di definire per legge un salario minimo nei Paesi dove i minimi sono stabiliti dai contratti collettivi nazionali. Ma soprattutto non dice in alcun modo che i salari minimi debbano essere applicati a tutti i lavoratori. Insomma, la direttiva non si intrometterà nel processo decisionale dei singoli Stati e nonostante il limite dei due anni per recepirla c’è tempo a sufficienza perché governo e Parlamento lascino tutto esattamente com’è, con buona pace del lavoro povero e dell’inflazione che lo impoverisce ulteriormente. Ma anche della ministra di Italia Viva per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, convinta che sul salario minimo “il governo si muoverà con il metodo della ricomposizione delle divisioni di cui è maestro il presidente Mario Draghi“. E soprattutto di un ministro del Lavoro che non passa giorno senza rilasciare dichiarazioni sul salario minimo. Salvo poi e più mestamente ricordare che per una legge servirebbero “maggioranze più omogenee”. Il suo collega alla Pubblica amministrazione Renato Brunetta, per esempio, è convinto che “il salario minimo per legge non va bene perché è contro la nostra storia culturale di relazione industriali“.

Ma anche dando per scontato, e non lo è, che dem e cinquestelle la pensino esattamente allo stesso modo, “non serve il salario minimo così come lo vogliono imporre Pd e M5s, perché gli stipendi devono essere frutto della contrattazione tra i rappresentanti di lavoratori e imprese”, ha detto il coordinatore nazionale di Forza Italia e parlamentare europeo del Ppe, Antonio Tajani. A complicare la “ricomposizione” di Draghi, la proposta di FI e Lega punta ad alzare i salari attraverso il taglio del cuneo fiscale, “recuperando i fondi da quella autentica vergogna che è il reddito di cittadinanza”, come dice il senatore di FI Aimi. Sulla centralità della decontribuzione il centrodestra è sostenuto anche da Italia Viva: “Se qualcuno pensa di scaricare sulle imprese il diritto sacrosanto a salari più alti, è destinato al fallimento”, avverte il vice-presidente della commissione Lavoro alla Camera, Camillo D’Alessandro. Tanto per essere chiari, siamo ancora agli appelli al famoso “confronto senza ideologismi“. E se il M5s avverte le destre – “non provino a bloccare un risultato storico” – l’amara verità è una proposta di legge presentata dallo stesso Movimento che da tempo si trascina in commissione Lavoro del Senato e che, rinvio dopo rinvio, non è ancora giunta all’esame degli emendamenti. Sempre che ci arrivi, il disegno di legge potrebbe uscirne con le ossa rotte.

Che l’Italia non sia un paese per il salario minimo legale lo dimostrano anche i sindacati. Da un lato proposte come quella dell’Usb che chiede di fissare il salario minimo a 10 euro l’ora attraverso i minimi tabellari (la proposta M5s parla di 9 euro, ndr). Dall’altro le dichiarazioni del segretario Cisl Luigi Sbarra, convinto che “non serve un salario minimo per legge a 9 euro lordi” e che la soluzione sia quella “di rafforzare i minimi dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative e a questi va dato valore legale”. Tesi che sposa volentieri anche il segretario generale Uil Pierpaolo Bombardieri, che chiede il taglio del cuneo fiscale e di legare l’attuazione della direttiva Ue “alla contrattazione collettiva, facendo coincidere il salario minimo ai minimi contrattuali”. Confindustria invece si chiama fuori “perché i contratti da noi firmati prevedono già paghe superiori”. E se proprio deve ragionare di salario minimo, pone alcune condizioni. A partire dalla necessità, dice il vicepresidente dei confindustriali Maurizio Stirpe, “che venga fissato come percentuale compresa tra il 40 e il 60% del salario mediano” (l’Ue parla di 60 per cento, ndr), che poi significa fissare la soglia tra i 5 e i 6 euro, quindi ben lontano dai 9 euro della proposta di legge del M5s che corrispondono quasi all’80 per cento dell’attuale salario mediano italiano.

Per questa legislatura la via al salario minimo fissato per legge sembra sbarrata. L’alternativa, almeno a parole, è quella di una riforma della rappresentanza che dia valore legale ai contratti firmati dalle sigle maggiormente rappresentative, dichiarando guerra ai contratti pirata che contribuiscono alla corsa al ribasso di salari e diritti. Questo, se non altro, bisognerà trovare il modo di farlo perché ad oggi l’Italia non è in grado di fornire all’Ue un dato certo sulla percentuale di lavoratori effettivamente coperta dai contratti collettivi. E siccome la direttiva prevede che sia almeno l’80 per cento, si rischia la procedura di infrazione. Ma ancora una volta siamo all’anno zero o poco ci manca. L’accordo tra i confederali per misurare l’effettiva rappresentanza sindacale ha ormai otto anni e non ha mai visto applicazione, mentre sul lato datoriale non si è mai nemmeno arrivati a una presa di posizione unitaria. Né si può dare per scontato che una simile riforma riesca a sanare aree dove la concorrenza al ribasso la fanno anche contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil, o che la novità convinca le parti sociali a sedersi al tavolo per rinnovare contratti scaduti da anni nonostante le busta paga siano spesso al di sotto della soglia di povertà, cioè quel 60 per cento del reddito familiare mediano disponibile che la Commissione europea ha indicato come riferimento operativo da inserire nella direttiva. Insomma, prima ancora di dividersi tra favorevoli e contrari l’Italia avrebbe bisogno di riordinare le idee. O magari di una proposta del governo sulla quale confrontarsi e che ad oggi non è stata ancora definita. Intanto, per dirla con il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni, l’accordo Ue è “un’occasione”. Niente più di un’occasione.

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