“Mantenere l’unità della Libia, rafforzare la pace e la sicurezza e spingere per una soluzione nazionale“. E’ la tabella di marcia che il Consiglio presidenziale libico ha annunciato in una nota il 5 luglio, commentando gli avvenimenti del venerdì precedente quando centinaia di manifestanti hanno preso d’assalto l’edificio del parlamento libico nella città orientale di Tobruk, protestando contro il deterioramento delle condizioni economiche e lo stallo politico del Paese. Il Consiglio ha promesso che il Paese andrà a elezioni presidenziali e parlamentari entro un lasso di tempo specifico. L‘Onu ha intanto condannato le violenze di piazza e per bocca della sua consigliera speciale per la Libia, Stephanie Williams, ha spiegato che “il diritto del popolo a protestare pacificamente dovrebbe essere rispettato e protetto, ma le rivolte e gli atti di vandalismo come l’assalto al quartier generale della Camera dei Rappresentanti a Tobruk sono totalmente inaccettabili“.

La cronaca – Le interruzioni croniche di elettricità sono la causa principale che ha portato a inizio luglio centinaia di manifestanti a scendere nelle strade e piazze di diverse città libiche per sfidare le forze armate e tutte le fazioni politiche e per esprimere la loro ira verso una classe dirigente i cui fallimenti hanno reso la vita nel Paese nordafricano intollerabile, soprattutto durante i soffocanti mesi estivi. In quello che è stato chiamato il “venerdì di rabbia”, i manifestanti di Tobruk, che accusano il parlamento di “tradimento” e “furto di denaro pubblico”, hanno fatto irruzione nell’edificio legislativo e hanno dato fuoco a documenti e apparecchiature. Proteste anche a Tripoli, Bengasi, Beida e Misurata, ma anche in altre città più piccole, a dimostrazione di come la rabbia per lo status quo sia trasversale e indirizzata verso l’intero spettro politico.

Il paese nordafricano è precipitato in una grave crisi energetica a seguito della paralisi politica che sta vivendo negli ultimi mesi e che contrappone due fazioni in continua lotta per il potere: il governo di Tripoli, che riconosce come premier ad interim del paese Abdel Hamid Dbeibah, e quella di Tobruk, che ha dichiarato illegittimo il governo della Capitale e ha designato Fathi Bashagha quale primo ministro lo scorso 10 febbraio, portando di fatto ad una situazione che vede convivere due governi in aperta contrapposizione tra loro. In una prima reazione alle proteste il primo ministro Dbeibah ha chiesto, secondo The Libya Observer, “a tutti gli organi politici, compreso il suo governo, di dimettersi e di passare alle elezioni”.

La crisi economica e energetica – La Libia sta perdendo decine di milioni di dollari al giorno a causa della chiusura dei suoi impianti petroliferi. Secondo il ministro del petrolio del paese, Mohammed Aoun, ripreso dall’agenzia francese Afp, “la produzione è diminuita di circa 600.000 barili al giorno“, ma la compagnia petrolifera nazionale libica (Noc) parla addirittura di una diminuzione di 865.000 barili rispetto alla riproduzione in “circostanze normali”, calcolando perdite per oltre 3,5 miliardi di dollari. La Noc ha infatti dichiarato il 30 giugno scorso l’impossibilità di produrre e trasportare greggio in varie parti del Paese “per cause di forza maggiore”, i cui effetti hanno portato al blocco dei porti di Es Sider e Ras Lanuf (oltre ai porti già chiusi di Brega e Zueitina), nonché del giacimento petrolifero di El Feel. Secondo quanto riferisce Al Arabiya, i terminal petroliferi sono stati chiusi a seguito di proteste e manifestazioni che durano ormai da mesi e che chiedono maggiore accesso al lavoro per le popolazioni locali, mentre secondo quanto riporta Al Jazeera sarebbero le forze libiche di Tobruk a forzare la chiusura degli impianti petroliferi nel tentativo di spingere Dbeibah a dimettersi.

Alcuni analisti spiegano quindi che dietro alle manifestazioni locali si celano in realtà gli interessi politici del governo di Tobruk. Il fronte che sostiene Bashagha, accusato dagli esperti di sabotare gli impianti, è infatti allineato con il comandante militare e signore della guerra Khalifa Haftar, sostenuto dalla Russia, che con le sue forze armate ha bloccato i giacimenti petroliferi nel tentativo di mandare in crisi il governo di unità nazionale di Tripoli. La conseguenza più immediata è il calo vertiginoso della produzione di elettricità. Il blocco dei porti ha infatti anche l’effetto di bloccare l’intera produzione petrolifera del Paese nordafricano: i terminal petroliferi sono interconnessi con le linee di produzione e con i giacimenti stessi, che in molti casi producono anche gas naturale. Quest’ultimo, insieme al carburante che viene acquistato sui mercati internazionali con denaro liquido o scambiandolo con merci, serve infatti ad alimentare le centrali elettriche del Paese.

Il calo della produzione del gas contribuisce quindi ai cronici blackout, che possono durare anche 18 ore al giorno. Secondo i dati della Banca mondiale la percentuale di popolazione con accesso all’elettricità è scesa al 69,7% nel 2020, circa il 30% in meno rispetto a inizio secolo: nel 2000 il 99,8% della popolazione aveva infatti elettricità in casa. Il National Audit Bureau libico afferma che il Paese ha perso 2.700 megawatt dei suoi 3.363 Mw originali e spiega, secondo quanto riporta l’agenzia americana Reuters, che la compagnia elettrica statale Gecol ha speso 1,6 miliardi di dinari (circa 323 milioni di euro) l’anno scorso senza riuscire a completare decine di progetti per il potenziamento di centrali elettriche, rimasti quindi in stallo. La Gecol ha cercato di gestire i blackout condividendo l’alimentazione tra diverse città della Libia occidentale, ma afferma che alcune di queste si sono rifiutate di accettare tagli, per mantenere in funzione l’elettricità nelle loro aree, causando quindi problemi in altre parti del Paese. Già nel 2020 la Turchia aveva proposto di collocare una centrale elettrica galleggiante in Libia come quelle che la sua compagnia elettrica nazionale aveva installato al largo di altri paesi. Ma le forze politiche non erano riuscite a trovare un accordo, portando quindi all’abbandono del progetto.

La crisi politica – I problemi economici ed energetici del Paese non sono però che l’effetto della perdurante crisi politica e costituzionale che sta attanagliando il Paese nordafricano, e la cui risoluzione sembra ancora lontana. Giovedì scorso i colloqui diplomatici tra la il Parlamento di Tobruk e gli organi legislativi dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, che si erano tenuti a Ginevra, non hanno portato ai risultati sperati, provocando di fatto l’interruzione dei rapporti diplomatici tra le due fazioni contendenti il potere. I colloqui erano volti a concordare una base costituzionale e disposizioni provvisorie per le elezioni originariamente previste per dicembre 2021.

Già il 20 giugno scorso l’Onu aveva dichiarato falliti i colloqui che si erano tenuti in Egitto, il che ha complicato ulteriormente gli sforzi internazionali per trovare una via d’uscita dal caos decennale del paese. I colloqui, iniziati il 12 giugno, avevano cercato di stabilire un quadro costituzionale per le elezioni in Libia, ma le due parti non sono riuscite a concordare “le misure che disciplinano il periodo di transizione” che porterà al voto, ha affermato Stephanie Williams, la consigliera speciale dell’Onu per la Libia. Secondo i media libici il principale argomento controverso erano i criteri per le candidature presidenziali. Il consiglio con sede a Tripoli ha insistito per vietare al personale militare di candidarsi per la carica più alta del paese, apparentemente una mossa diretta al comandante militare e signore della guerra Khalifa Haftar, affiliato alla fazione di Tobruk, il quale aveva annunciato la sua candidatura alle elezioni previste per lo scorso dicembre.

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