Ricordate la “Visione 2030” lanciata nel 2017 dal principe della corona saudita Mohamed bin Salman? Un potente piano di sviluppo, secondo la narrativa ufficiale, per diversificare l’economia e creare maggiori opportunità per i giovani e le donne.

A Gedda la “Visione 2030” non verrà ricordata esattamente così. Il progetto riguardante la città portuale sul mar Rosso, lanciato alla fine del 2021 con un costo di 75 miliardi di riyal (più o meno 19 miliardi di euro) prevede la costruzione di musei, appartamenti e alberghi di lusso, uno stadio e un acquario su una superficie totale di 5,7 milioni di metri quadrati.

Detto del costo economico, passiamo a quello umano, di cui si è avuta una prima idea quest’anno a gennaio, quando hanno iniziato a circolare sui social media le immagini delle demolizioni iniziate tre mesi prima. In tutto è previsto che le aree demolite saranno 60, soprattutto nella parte meridionale di Gedda, con un impatto su 558.000 abitanti. Le immagini satellitari acquisite da Amnesty International hanno confermato la demolizione di almeno 20 aree della città.

Il 31 gennaio la Saudi Gazette ha annunciato un programma di risarcimenti, la cui entità sarà stabilita caso per caso solo a demolizione avvenuta e che soprattutto esclude i cittadini stranieri, esattamente il 47 per cento degli sgomberati. Secondo la documentazione ufficiale visionata da Amnesty International, in alcune zone l’avviso di demolizione è arrivato con alcune settimane di anticipo, in altre il giorno prima. Nel quartiere di al-Ghaleel, ad esempio, gli abitanti di un palazzo hanno trovato all’entrata la scritta “da evacuare” fatta con lo spray e il giorno dopo è stata tagliata la corrente elettrica. Ad aprile Amnesty International ha scritto una lettera alla Commissione per i diritti umani, un organismo governativo, chiedendo dettagli sull’eventuale coinvolgimento delle comunità interessate, sulla messa a disposizione di alloggi alternativi per le persone sgomberate, sul preavviso e sui risarcimenti, ma non ha ancora ricevuto risposta.

La stampa governativa ha descritto in modo negativo e stigmatizzante gli abitanti dei quartieri da sgomberare: persone prive di documenti che aggirano le norme sulla residenza e sul lavoro e che vivono in quartieri “pieni di malattie, reati, droga e furti”. Una contro-narrativa, ossia il racconto di come vanno veramente le cose, non c’è. Gli abitanti di Gedda che hanno accettato di parlare con Amnesty International hanno descritto un clima di paura che impedisce di protestare. Uno di loro ha ricordato il precedente di Abdullah ah-Huwaiti, ucciso dalle forze di sicurezza nell’aprile 2020 per aver guidato le proteste pacifiche contro l’acquisizione di terreni nella provincia di Tabuk nell’ambito del progetto di megacity chiamato Neom. Alcuni residenti, con garanzia di anonimato, hanno accettato di prendere parte a un sondaggio. Altri, affidandosi a nickname, hanno affidato a Twitter la rabbia per le demolizioni, per l’aumento degli affitti e dunque l’impossibilità di trovare soluzioni abitative alternative e per il ritardo nell’erogazione dei risarcimenti.

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