Sono passati nove giorni dall’ingresso dell’editorialista Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Da allora, di lui non c’è più traccia. Secondo la ricostruzione fatta da un alto ufficiale dei servizi turchi al New York Times, il giornalista saudita sarebbe stato ucciso e fatto a pezzi da un team di agenti inviati da Riyad. Inoltre, il Washington Post, quotidiano per cui Khashoggi scriveva, ha rivelato che i sauditi avevano elaborato un piano per farlo tornare nel paese e catturarlo.

Così, mentre le responsabilità della casa reale Sa’ud si fanno sempre più concrete, la grande questione si concentra sul perché il governo saudita abbia deciso di compiere una mossa così eclatante per eliminare un suo oppositore. Il principe ereditario Mohammad Bin Salman sta investendo non poche risorse nel cercare di dare al regno della penisola arabica un’immagine più moderna e liberale. Il lancio del piano Vision 2030, nato per diversificare l’economia del Paese e renderla meno dipendente dai ricchi proventi del petrolio, è stato accompagnato da riforme complementari che hanno concesso delle aperture anche al genere femminile. Lo scorso giugno, numerosi corrispondenti stranieri avevano celebrato la fine del divieto di guida per le donne. Un passo che poteva sembrare storico anche se, allo stesso tempo, la maggior parte delle attiviste saudite che per anni avevano protestato per ottenere il diritto alla guida erano già in carcere o ci sarebbero finite qualche tempo dopo.

Il caso delle donne del movimento Women to drive ci offre una rappresentazione quasi iconica dell’atteggiamento delle autorità verso la strategia di modernizzazione del Paese. “C’è una differenza sostanziale tra le riforme decise dal governo e la libertà di esercitare i diritti civili”, spiega Cinzia Bianco, senior analyst della Gulf State Analytics. “Le aperture del regno, infatti, coincidono con uno dei momenti di repressione massima contro i dissidenti della casa regnante”.

La rivista americana Foreign Policy ha spiegato che Bin Salman sarebbe spaventato dal numero di oppositori sauditi che hanno scelto di vivere all’estero. Un numero che continua a crescere dal 2015, quando il giovane rampollo è salito al potere prima come ministro della difesa e, due anni dopo, come principe ereditario. Secondo il magazine americano, allo stato attuale nessun paese del Golfo conta così tante richieste d’asilo politico come l’Arabia Saudita. Per esempio, solo nel 2016 gli Stati Uniti hanno concesso la protezione a 47 cittadini del regno. A questi si aggiungono quelli, come Khashoggi, che hanno scelto l’esilio volontario.

Secondo diversi analisti, la repressione è un sintomo di debolezza del governo che sta vedendo le sue partite internazionali fallire, dalla guerra in Yemen al tentato isolamento del Qatar, e che si sta riverberando nelle dinamiche interne ai palazzi di Riyad. Ne è una chiara dimostrazione l’arresto e la detenzione nel lussuoso Ritz -Carlton della capitale saudita di 300 uomini d’affari e membri della famiglia reale avvenuta lo scorso novembre. Una mossa che venne giustificata come un’azione volta a contrastare la dilagante corruzione nel Paese, ma che ha mostrato la spregiudicatezza del regno nel voler contenere qualsiasi personalità avversa ai piani di Bin Salman.

Il caso Khashoggi rappresenta però un’escalation senza precedenti, anche se è difficile valutare le conseguenze che la vicenda avrà sull’ambizioso piano Vision 2030. “La mancanza di diritti civili potrebbe non essere tra i maggiori punti deboli del piano, anche gli investitori che hanno una parte dedicata alla responsabilità sociale sono in minoranza”, afferma Bianco. “Il ragionamento dei sauditi è che le grandi società investono in altre parti del mondo, dove sono presenti delle violazioni dei diritti umani e quindi non dovrebbero farsi troppi problemi neanche con l’Arabia Saudita”.

Anche la reazione della politica internazionale, al momento, è debole. Francia, Gran Bretagna e Unione Europea hanno chiesto delle spiegazioni ma senza troppa severità. Il vicepresidente statunitense, Mike Pence, si è detto pronto a inviare degli investigatori ma solo su richiesta delle autorità saudite, mentre un gruppo di senatori americani ha chiesto l’apertura di un’inchiesta per determinare l’eventuale applicazione di sanzioni.

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