In Europa l’inflazione in crescita “non è il frutto di un surriscaldamento dell’economia”, a differenza di quanto accade negli Usa, ma piuttosto il prodotto di una serie di “choc sul lato dell’offerta”, prodotti prima dalla pandemia di Covid-19 e poi dalla guerra in Ucraina. E serve un intervento comune per frenare l’ascesa dei prezzi dell’energia: non però un “nuovo Recovery” ma un remake di Sure, il programma Ue voluto da Paolo Gentiloni e Nicolas Schmit nella primavera del 2020 che ha concesso ai Paesi membri prestiti con cui finanziare gli schemi nazionali di sostegno all’occupazione. A dirlo è stato il premier Mario Draghi aprendo a Parigi la riunione ministeriale dell’Ocse, quest’anno presieduta dall’Italia.

“Uno strumento simile, questa volta mirato all’energia, potrebbe garantire ai paesi vulnerabili più spazio per aiutare i propri cittadini in un momento di crisi. Sosterrebbe il sostegno popolare al nostro sforzo sanzionatorio comune e contribuirebbe a preservare la stabilità finanziaria in tutta la zona euro”, ha spiegato. “Ci sono motivi forti per utilizzare trasferimenti diretti pubblici, mirati ai più poveri, mantenendo la sostenibilità delle finanze pubbliche”. D’accordo il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: “Sure può essere sicuramente uno degli strumenti. Come ci ha aiutato durante la pandemia, possiamo utilizzarlo per affrontare la crisi economica che deriva dall’aggressione russa all’Ucraina”.

Se un bis di Next Generation Eu che comprende sia trasferimenti a fondo perduto che prestiti ha poche possibilità di vincere le resistenze dei Paesi del Nord, che hanno dato via libera appena due anni fa al debito comune in Ue, Sure è composto solo da prestiti. Che vanno dunque restituiti, pur con il vantaggio di tassi di favore perché la Commissione può emettere bond (dietro garanzie fornite dagli Stati) offrendo rendimenti assai più bassi di quelli che deve pagare l’Italia. Roma è stata il primo beneficiario con oltre 27 miliardi. Un intervento del genere ma mirato a far fronte ai rincari energetici aiuterebbe secondo Draghi a tenere sotto controllo l’impatto sulle famiglie, in uno scenario in cui l’inflazione dell’Eurozona è molto elevata ma quella “core”, depurata dalle componenti più volatili, è “molto inferiore” a quella osservato negli Usa. Tutti “segnali – nota l’ex banchiere centrale – che c’è ancora capacità inutilizzata nell’economia”. L’inflazione, dunque, non è il prodotto di un’economia “surriscaldata”, come quella americana dove anche i salari corrono.

In Italia come è noto la situazione è ben diversa e gli stipendi ristagnano. Su questo, nei giorni del dibattito sul salario minimo, Draghi ha detto che i salari devono “recuperare il loro potere di acquisto” ma – come aveva sostenuto anche il governatore di Bankitalia Visco – non bisogna “creare una spirale prezzi-salari”. Il messaggio in sottotesto sembra essere che, se da un lato i governi dei Paesi più indebitati garantiscono che i salari non si metteranno a correre, alimentando ancora di più l’inflazione, dall’altro si aspettano che la normalizzazione della politica monetaria nell’area euro sia graduale e non brusca, scongiurando il rischio di una recessione in Europa.

Quanto alla possibilità di introdurre un price cap sul gas, ipotesi su cui il Consiglio Ue ha aperto dando però mandato alla Commissione di analizzarne la fattibilità, Draghi non sembra farsi troppe illusioni: “La strada potrebbe essere lunga”, avverte, sapendo che le resistenze dei Paesi del Nord non sono state affatto superate, anche se Bruxelles ha appena dato il via libera a Spagna e Portogallo. Lisbona e Madrid si trovano in una situazione particolare: hanno pochi collegamenti con il resto d’Europa e usano poco gas, ma si trovano il prezzo dell’elettricità alle stelle, per via del collegamento con il prezzo del gas.

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