Si aggiunge un nuovo capitolo alla storia di Attilio Manca e potrebbe essere ad una svolta il caso della morte di questo giovane urologo spirato nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004 a Viterbo, dove lavorava da poco meno di due anni. Secondo quanto rivela il portale “Antimafiaduemila”, in un’intercettazione di fine 2003 i gregari di Bernardo Provenzano, allora ancora latitante, dissero che bisognava “fare una doccia” ad un medico, di cui non viene mai fatto il nome, per aver negato le cure al boss.

Il camice bianco fu trovato con due buchi nel braccio sinistro e la sua morte archiviata come una overdose. Stando a quanto ricostruito, Provenzano aveva bisogno di un medico a causa del suo tumore alla prostata e, prima del suo viaggio in Costa Azzurra dove sarebbe stato poi operato, i suoi uomini avevano chiesto la disponibilità ad un dottore che però si rifiutò di aiutarli. Nell’intercettazione, contenuta nel fascicolo che aprì all’epoca la Procura di Roma, si sentono le voci di sei o sette uomini, tra cui anche il fedelissimo di Provenzano, Giuseppe Lo Bue. A confermare la rilevanza di queste informazioni è l’avvocato della famiglia del medico morto, Fabio Repici. Per oltre 18 anni, i genitori di Attilio Manca si son battuti sulla morte sospetta del figlio e ora stanno valutando di presentare un nuovo esposto. Secondo la famiglia il medico, che aveva 34 anni quando morì, non si suicidò con un’overdose da eroina, aggravata dall’assunzione di uno psicofarmaco a base di benzodiazepine, ma proprio perché coinvolto a sua insaputa nelle cure a Bernardo Provenzano.

Il medico venne ritrovato la mattina del 12 febbraio 2004 seminudo sul letto, con il volto tumefatto e il setto nasale deviato. Poco lontano due siringhe. Alla famiglia venne detto che l’uomo era morto per un aneurisma e l’autopsia ravvisò tracce di alcol e cannabis: a compierla, senza indicare a verbale tutti i presenti, rileverà nel 2018 la relazione di minoranza dell’antimafia fu la dottoressa Ranalletta, moglie del primario dell’ospedale Belcolle di Viterbo, dove lavorava Attilio Manca. Le indagini imboccarono immediatamente la pista del suicidio per overdose perseguita in tre richieste di archiviazione nonostante tutti i colleghi del medico avessero smentito la tossicodipendenza di Attilio Manca confermando che la vittima era mancina e chiedendosi come aveva potuto iniettarsi la dose di droga nel braccio sinistro.

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