Alla fine anche gli ormai famosi Propokenko, comandante del reggimento Azov, e Volynsky, comandante della 36^ brigata fanteria di marina, si sono arresi insieme agli ultimi irriducibili difensori di Azovstal. La difesa dell’acciaieria ha assunto per settimane un valore simbolico che trascendeva abbondantemente la rilevanza tattica dell’acquisizione o della perdita dell’infrastruttura. D’altronde, l’epicità della resistenza degli assediati in una lotta impari ha quasi sempre indotto a trepidare emotivamente per il destino dei difensori, indipendentemente dalla simpatia o meno che ispirassero le loro cause, che si trattasse degli zeloti a Masada, dei texani di Davy Crockett a Fort Alamo o dei franchisti de Colonnello Moscardò asserragliati nell’Alcazar di Toledo.

È chiaro che sul piano prettamente militare la resa dell’acciaieria non ha inciso in maniera rilevante sulle operazioni in corso. I russi controllavano già Mariupol, o cosa ne resta in piedi, ad eccezione degli 11 chilometri quadrati in cui sorge lo stabilimento, area dalla quale non si sarebbero potute lanciare operazioni di disturbo ad ampio raggio che potessero risultare veramente significative. Certamente, eliminata quella sacca di resistenza, i russi possono ora destinare ad operazioni più rilevanti le forze che erano rimaste bloccate per tenere sotto assedio l’acciaieria, ma non appare questo un elemento determinante nell’economia generale della campagna di guerra. Invece, sotto l’aspetto simbolico, morale e, in definitiva, politico, l’impatto è sicuramente diverso. Infatti, con la resa della guarnigione assediata, di fatto, è stata disinnescata una importante arma psicologica e morale in mano agli ucraini.

Se tutti i difensori dell’Azovstal fossero caduti in una strenua difesa senza speranza, la Russia sul piano della comunicazione ne sarebbe uscita moralmente sconfitta. Inoltre, un tale drammatico epilogo avrebbe fatto dei difensori un mito fondante della lotta ucraina e la “morte eroica” li avrebbe posti al disopra di qualsiasi distinguo relativo ad eventuali pregresse azioni criminali attribuite ad alcuni di loro. Un mito che oltre a rinvigorire la volontà di combattere degli ucraini avrebbe indubbiamente avuto un’eco emotiva tale da incidere sulla percezione del conflitto da parte delle opinioni pubbliche occidentali e sul relativo atteggiamento dei rispettivi governi, favorendone un posizionamento ancora più favorevole a Kiev (in termini di aiuti economici e militari) e ostile a Mosca (in termini di sanzioni).

Il fatto che tale epilogo sia stato evitato rappresenta un indubbio vantaggio per Mosca. Un’opportunità che Mosca può ora giocarsi in termini di comunicazione, ma anche un’opportunità che Mosca potrebbe sprecare ove i russi si facessero trascinare dal desiderio di adottare misure di ritorsione illegittime o sproporzionate e non trattassero i prigionieri come previsto dalle convenzioni internazionali, anche se tra loro ci fossero (come è sicuramente possibile che ci siano) individui che negli ultimi otto anni si siano resi responsabili di azioni criminali ai danni delle popolazioni russofone del Donbass.

Occorre tener presente che se i russi per il momento militarmente non sembrano riuscire a sfondare e una loro vittoria sul campo appare incerta, sicuramente a livello mediatico sembra che questa guerra Mosca la stia già perdendo. Occorre anche ricordare che, in base al Diritto Internazionale e alle Convenzioni di Ginevra, ratificate anche da Mosca, i “prigionieri di guerra” non possono essere sottoposti a maltrattamenti e il Comitato Internazionale della Croce Rossa deve avere libero accesso ai luoghi della loro detenzione.

I russi, che non possono ignorare che l’intera opinione pubblica occidentale ne osserverà l’operato pronta a denunciare eventuali abusi, devono saper dimostrare di trattare i prigionieri sulla base di quanto prescritto delle convenzioni internazionali da loro ratificate. In un’ottica strategica sarebbe certamente poco lungimirante per Mosca ricorrere a bizantinismi giuridici (sul tipo di “non è guerra ma è una operazione speciale e in questo caso i prigionieri non sarebbero prigionieri di guerra” oppure “essendo terroristi, le convenzioni internazionali a loro non si applicano”).

Certamente, evidenziare i legami culturali tra i militanti del reggimento Azov e il nazismo servirebbe a supportare la linea di comunicazione dell’esigenza di “denazificare” l’Ucraina. Una narrativa utile ai fini interni, ma che probabilmente non avrebbe presa al di fuori di Russia, Bielorussia e territori filorussi in Ucraina. Sarebbe anche rischioso per la credibilità di Mosca non farsi carico direttamente della questione e consegnare i prigionieri alle milizie delle autoproclamate repubbliche di Donetsk o di Luhansk, confidando che poi sarebbero queste ultime e non la Federazione Russa ad essere ritenute responsabili di eventuali abusi nei confronti dei prigionieri o delle eventuali condanne loro inflitte sulla base di procedimenti giudiziari forse discutibili. È noto che nelle due repubbliche alcuni militanti del reggimento Azov sono accusati di aver commesso atrocità e crimini di guerra, ma rischiare di lasciare i prigionieri provenienti dall’Azovstal in balia di pur comprensibili intenti vendicativi di tali entità politiche internazionalmente non riconosciute poterebbe risultare per il Cremlino in un boomerang politico.

Solo assumendosi la responsabilità in proprio dei prigionieri e garantendo il genuino rispetto del dettato del Diritto Internazionali, la Russia potrebbe in seguito, sulla base di prove fattuali, sottoporre a procedimenti giudiziari quegli individui tra i prigionieri che siano sospettati di eventuali crimini di guerra o di azioni criminali negli scorsi otto anni. Azzardare paragoni con il trattamento dei detenuti ad Abu Ghraib o a Guantanamo da parte USA , indipendentemente dalla loro eventuale fondatezza, avrebbe scarsa presa se non con la sola opinione pubblica russa. In conclusione, per quanto possa risultare sgradevole alla Russia e alle autoproclamate repubbliche di Donetsk e di Luhansk, dipenderà anche dal trattamento che Mosca riserverà a Propokenko ed ai suoi, se in prospettiva la resa di Azovstal potrà tornare più utile alla narrativa ucraina o a quella russa.

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