“Не рой яму другому – сам в неё попадёшь!” È un vecchio proverbio russo. Oggi è tornato ad essere uno dei tanti passaparola colloquiali per aggirare la censura, come ai tempi dell’arcipelago gulag, e commentare, senza finire in gattabuia, la sconcertante bellica deriva putiniana. Si pronuncia “Ne roj jàmu drugòmu – sam v nejò papadjòsh!”, più o meno vuol dire “Non scavare una buca per qualcun altro, potresti cascarci dentro!”.

La saggezza popolare come antidoto allo sgomento, questo 9 maggio 2022 rischia di essere ricordato come la festa del Grande Trauma, altro che celebrazione della Grande Guerra Patriottica – diventata un dovere costituzionale dal luglio del 2020: guai a non rispettare la “memoria dei difensori della patria”, e a “minimizzare il loro eroismo”. Che peraltro, mai nessuno ha messo in dubbio, giacché è un fatto storicamente incontestabile, nemmeno in Occidente si è sottovalutato il colossale (e drammatico) ruolo giocato dall’Unione Sovietica nella sconfitta del Terzo Reich, la liberazione dell’Europa dell’est e la conquista di Berlino. Perché ogni famiglia russa ha pagato caro il tributo di sangue: 26 milioni di morti, 16 dei quali vittime civili (cifre di fonti europee e americane, mica sovietiche).

Ebbene, la glorificazione dell’Urss nella Seconda Guerra Mondiale che Stalin, con perspicacia, ribattezzò Grande Guerra Patriottica, volta a connotarla nell’immenso sforzo del popolo russo contro il nazifascismo, è lo strumento ideologico che Putin usa (e di cui abusa) per giustificare la sua “Operazione Speciale” contro l’Ucraina, Paese con cui la Russia ha un profondo “legame di sangue” (dichiarazione del 21 febbraio scorso), il cui popolo avrebbe assecondato “l’ascesa dell’estrema destra nazionalista” che si è rapidamente sviluppata “in una russofobia aggressiva e in neonazismo”.

E’ la missione storica della quale si è autoinvestito Putin, quella di “liberare i Paesi dell’Est europeo dalla peste bruna” (discorso del 9 maggio 2021), un dovere che il capo del Cremlino ha più volte rivendicato, nei suoi discorsi alla nazione in occasione della Festa della Vittoria. Per esempio, il 9 maggio del 2012: “Il nostro Paese ha offerto la libertà ai popoli del mondo intero”.

Pochi sanno che per Putin il 9 maggio è molto di più della Festa della Vittoria: per lui, infatti, è il giorno più santo del calendario russo, il giorno in cui da sempre sogna l’apoteosi del suo regime, puntellata anno dopo anno da una narrazione della Storia sempre più manipolata, sempre più strumentalizzata. In un certo senso, ha rielaborato il mito degli eroi di quella sanguinosa carneficina che fu per i russi la Guerra Patriottica.

Stalin si appropriò della sua gloria, e i meriti, per soffocare dolori, sofferenze, lutti. Non andò oltre: la guerra era appena finita, bisognava ricostruire il Paese e ridare fiducia nel sistema sovietico ai sopravvissuti. Fu sotto Breznev che la Grande Guerra Patriottica divenne “sacra”, dunque mito, da ritualizzare in una giornata molto particolare: per riflettere sui sacrifici del buon cittadino sovietico, e sul sole dell’avvenire, per usare una metafora molto cara in Urss. Il popolo russo, fiaccato da repressioni e indottrinamento permanente, l’accolse come festoso momento di tregua, e di orgogliosa riconoscenza.

Mito, tradizione, rito, dunque, il cocktail memorialistico del 9 maggio, in cui Putin, direttore d’orchestra, legge ed interpreta lo spartito del Grande Liberatore. Lo fa nel solco dell’eredità antinazista sovietica, trasformandola in virtù e doveri “sacri” (lo ripete spesso). Peccato, che la sua lettura sia parziale e spesso contraddittoria. Omette. Ribalta. Contraddice.

Un tabù ereditato dall’Urss è stato per decenni il misterioso patto Molotov-Ribbentrop siglato nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1939, a Mosca, in cui i due ministri degli Esteri stringono un trattato di non aggressione, che sconcertò non poco i comunisti di tutto il mondo, oltre a quelli in Urss. In realtà, Germania e Unione Sovietica avevano stabilito anche un protocollo segreto – venuto alla luce nel 1989 – in cui si organizzava la spartizione dell’Europa orientale. All’Urss spettava la Polonia dell’est, l’Estonia, la Lettonia, la Finlandia e la Bessarabia. Tant’è che il primo settembre di quel maledetto 1939 i tedeschi invasero la Polonia. Sedici giorni dopo, toccò ai sovietici fare lo stesso, da est. Non proprio una bella e gloriosa pagina di Storia. Che infatti fu sempre tenuta negli archivi segreti di Stato.

Poi, ci fu il tradimento di Hitler. La famosa Operazione Barbarossa, elaborata nell’estate del 1940, divenuta Direttiva numero 21 il 18 dicembre del 1940 e trasmessa ai capi di Stato Maggiore. Sei mesi dopo, il 22 giugno del 1941, la Wehrmacht scatena l’attacco all’Urss. La mossa sorprese Stalin, benché la sua intelligence gli avesse riferito per tempo che Hitler stava ammassando truppe e mezzi corazzati alla frontiera. Lo sconcerto affiora persino nei primi notiziari radio: “L’Unione Sovietica è stata attaccata dalle truppe tedesche senza alcuna dichiarazione di guerra”, annunciò con voce non abbastanza stentorea lo speaker. Ottantun anni dopo, anche la Russia di Putin ha agito nello stesso modo con l’Ucraina

“Le armate naziste hanno attaccato i nostri confini, hanno bombardato Titoviev, Kiev, Sebastopoli, Kaunus…”, segnalava lo speaker, e di nuovo ogni riferimento all’attualità non è affatto casuale: ad attaccare i confini ucraini stavolta sono state le armate della Federazione russa, bombardando Kiev e mille altre città. Piccole differenze semantiche tra oggi e ieri. La parola “guerra” contro l’Ucraina è stata bandita da Putin, che l’ha definita ipocritamente Operazione Speciale, ma si sa, il retaggio sovietico era anche quello di inventare formule e slogan propagandistici e Putin è cresciuto a quella scuola . Allora, in quel caldo 22 giugno del 1941 (ad Odessa la sera avrebbero dato al magnifico Teatro dell’Opera la Traviata di Verdi), lo speaker di radio Mosca spiegava che “la guerra” era già arrivata fino ai territori della Romania e della Finlandia, “oggi le nostre truppe si preparano a rispondere all’attacco degli invasori”. Ciò che era lecito per l’Unione Sovietica (rimpianta da Putin), non lo è per l’Ucraina aggredita…

L’inizio di quella guerra fu tremendo per i russi. Persino la radio dovette ammettere le prime batoste: “Credevamo che la guerra sarebbe stata breve, e che saremmo arrivati ad una rapida vittoria, ma adesso stiamo arretrando e abbiamo subìto enormi perdite…”.

Pure l’attuale padrone del Cremlino credeva di poter esaltare nel Giorno della Vittoria la conquista di Kiev, il ritorno dell’Ucraina nell’alveo della Gran Madre Russia, e, ça va sans dire, l’eterna gloria per il suo novello zar. L’Operazione Speciale dura da 77 giorni. Il 77 è il numero del Diavolo. E dei Diavoli.

Dicono che l’algido Putin sia molto scaramantico.

Di “politica ed esoterismo all’ombra del Cremlino” ne scrisse anni fa Giorgio Galli, l’Huffington Post ha titolato un servizio sul Gruppo Wagner, l’armata dei mercenari di Putin, “Neonazismo esoterico e arianesimo pagano”. In un capitolo del mio libro Putingrad (2008) ho rivelato che alla Lubianka di Mosca, la sede dei servizi russi eredi del Kgb, c’era una chiesetta ortodossa consacrata per gli agenti che vi accedevano attraverso un passaggio segreto. Domenico Quirico, sulla Stampa, ha parlato di intreccio fra terrore e fede.

L’intelligence è carne e ossa di Putin, che ha ostentato la sua devozione religiosa in più occasioni e sono sempre più numerose le conversioni pubbliche di molti capi dei Servizi, per la soddisfazione del patriarca Kyrill, il braccio di Dio del Cremlino.

Fino al 24 aprile, i generaloni dell’intelligence sono stati i suoi interlocutori più affidabili, su tutti svetta Nikolaj Patruscev (il quale formalmente occupa la carica di segretario del consiglio di sicurezza della Russia). Putin, dopo aver fatto carriera al municipio di San Pietroburgo, si è trasferito a Mosca inserendosi nelle strutture vip della Sicurezza nazionale, grazie all’appoggio di Patruscev. È l’unica persona di cui si fida ciecamente. Dopo che i calcoli e i piani del blitzkrieg militare in Ucraina, elaborati dai think tank delle Forze armate e dei generali della sicurezza, sono miseramente falliti, Putin se l’è presa con chi li aveva elaborati e con chi gli aveva promesso una conquista rapida e facile. Fonti non ufficiali parlano di purghe e di possibili incriminazioni negli alti ranghi dei militari. A Mosca parlano di “Esercito Potemkin”.

Da quando il Cremlino ha destinato gran parte delle risorse pubbliche per il riarmo delle Forze armate, l’immagine diffusa dalla Russia e sostenuta da Putin era quella di una potenza militare moderna. Invece il conflitto ne ha enfatizzato le debolezze, frutto della corruzione, e delle illusioni sulla presunta arrendevolezza dell’esercito ucraino.

Così, oggi come mai in passato, l’imponente e tradizionale sfilata della Piazza Rossa – compresa l’immancabile testimonianza storica dei vecchi mezzi e degli uomini in divisa come nel 1945 – appare una coreografia da grande potenza dei poveri, minacciosa solo per l’arsenale atomico: ma Washington, Londra e Parigi hanno ricordato al Cremlino che in caso di attacco nucleare, dispongono di risorse tali da replicare e sovrastare la Russia. Si chiama politica della dissuasione: un déja-vu della prima Guerra Fredda. Insomma, Putin ha sbattuto contro la realtà della guerra, il Golia russo è stato preso a fiondate dal Davide ucraino. E la sua più grande e brutta sorpresa gli è arrivata da quell’Occidente che riteneva “decadente, finito, in declino”. Un Occidente determinato a tenergli testa e ad armare ed addestrare l’Ucraina coi mezzi più avanzati.

Sarà una coincidenza – in Russia, tuttavia, nulla avviene per caso – ma negli ultimi giorni, a Mosca, circola la voce che Putin debba sottoporsi ad un intervento chirurgico per una malattia oncologica, e già avrebbe lasciato intendere che nei giorni della sua assenza affiderà la gestione dello Stato a Patruscev, il falco dei falchi, antioccidentalista ferreo, che gli fu mentore, nonostante la Costituzione preveda la gerenza provvisoria del primo ministro Mishusin. Quindi, Patruscev potrebbe disporre del “bottone rosso”, nella valigetta nucleare.

Di certo, l’Occidente sottovaluta quanto mostruosamente sia stato inquinato dalla propaganda nazionalpatriottica il cervello (inteso anche come anima e coscienza) dei russi. Dal 60 all’80 per cento (secondo le statistiche ufficiali), sono davvero convinti che Putin stia salvando l’Ucraina dal nazismo. Per metà di questo branco filoputiniano, l’unica fonte d’informazione è la tv, che funziona e sparge sistematicamente propaganda con dosi da cavallo. E con maestria tecnicamente impeccabile: talk-show, video, interviste, cartoni animati. In questi ultimi giorni, con l’aggiunta di refrain storici (slogan, foto d’epoca…), quasi ogni minuto: “NOI ABBIAMO SCONFITTO IL NAZISMO DI HITLER! NOI ABBIAMO LIBERATO L’EUROPA E IL MONDO DALLA PESTE BRUNA…”. Megafoni di questa martellante propaganda sono personaggi come Vladimir Soloviev (che ha due ville sul lago di Como), Kisseljov, Skabejeva e altri “che noi (non inquinati) chiamiamo propagandoni, per insultarli (gandon, in russo è una parolaccia con il significato = condom)”, mi confida un amico di Mosca.

Gli riconosco quello spirito sarcastico dell’immenso Gogol, nato in Ucraina e morto a Mosca, abilissimo nell’uso dello “skaz”, tecnica lessicale in cui si alternano esclamazioni e giri di parole. Per irridere i potenti. Specie chi pensa d’essere grande, e non ci riesce. Incespicando nella fossa che aveva scavato per infilarci qualcun altro.

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