Come la gravità con cui il Covid-19 si manifesta nei pazienti dipende da cause genetiche e immunologiche, così nella genetica è racchiuso il motivo della asintomaticità di chi, infettato da Sars Cov 2, anche in età avanzata non ha mostrato tutte le tipiche conseguenze del contagio. A questo secondo risultato è arrivato recentemente un team di ricercatori italiani. Gli scienziati hanno individuato almeno tre mutazioni genetiche rare all’origine dei casi asintomatici di Covid-19. Queste mutazioni, secondo l’analisi dei ricercatori, agiscono indebolendo i geni coinvolti nei processi di attivazione del sistema immunitario e la loro scoperta, avvenuta in Italia, potrebbe aprire la strada a nuove tecniche di diagnosi e a nuove terapie. Pubblicato sulla rivista Genetics in Medicine, lo scorso 5 maggio, il risultato si deve al gruppo del Ceinge-Biotecnologie di Napoli diretto da Mario Capasso e Achille Iolascon, entrambi docenti di Genetica medica dell’Università Federico II di Napoli. I dati sono ora disponibili online per tutti i ricercatori del mondo (a questo link).

La ricerca, cui hanno collaborato Pellegrino Cerino, dell’Istituto Zooprofilattico di Portici, e Massimo Zollo, coordinatore della task-force Covid del Ceinge e docente di Genetica della Federico II, si è basata sull’analisi dei campioni di Dna di circa 800 individui rimasti asintomatici dopo l’infezione da Sars Cov2, pur avendo fattori di rischio come l’età avanzata con età pari o superiore a 60 anni. “Sono stati analizzati tutti i geni finora conosciuti utilizzando sequenziatori di ultima generazione e ottenendo così un enorme mole di dati genetici. Strategie di analisi bioinformatiche avanzate, messe a punto – spiega Capasso – grazie al contributo del giovane ricercatore Giuseppe D’Alterio e del team di esperti bioinformatici del Ceinge hanno poi permesso di identificare mutazioni patogenetiche rare che erano significativamente più frequenti nei soggetti infetti e asintomatici e non in una grande casistica di circa 57.000 soggetti sani“. I casi analizzati sono stati per la precisione 56.885. “Tutti i soggetti – scrivono i ricercatori nello loro studio – sono stati infettati in una piccola finestra di tempo intorno a marzo e aprile 2020, all’inizio del virus diffuso in Italia e quindi probabilmente con lo stesso ceppo virale e” il gruppo analizzato “comprendeva campioni di fenotipo estremo” ovvero pazienti “che non hanno sviluppato manifestazioni cliniche gravi anche se infettati dal coronavirus in età avanzata. I pazienti avevano un’età media di età media superiore ai 69 anni nel 43% e 71 per il restante. Una fascia di età che, come abbiamo imparato, deve essere considerata particolarmente a rischio. Per confermare la scoperta i ricercatori hanno eseguito test anche su pazienti ricoverati in ospedale con Covid 19.

I geni coinvolti nelle infezioni asintomatiche sono tre, si chiamano Masp1, Colec10 e Colec11 e appartengono alla famiglia delle proteine della lectina, la proteina coinvolta nel processo di riconoscimento cellulare. “Oggi è ampiamente dimostrato che l’eccessiva risposta immunitaria all’infezione da Sars Cov 2 e la successiva iper-attivazione dei processi pro-infiammatori e pro-coagulativi sono la causa principale del danno agli organi come polmoni, cuore, rene – osserva Capasso – e la nostra ricerca dimostra che le mutazioni del genoma umano che attenuano questa eccessiva reazione immunitaria possono predisporre a un’infezione senza sintomi gravi”.

Considerando le possibili applicazioni della scoperta, gli autori della ricerca hanno deciso di rendere i dati liberamente accessibili: “Abbiamo reso disponibili, in un database online tutti i dati genetici ottenuti, che altri studiosi potranno liberamente consultare per sviluppare nuove ricerche. Possiamo utilizzare queste mutazioni – aggiunge Iolascon – per individuare soggetti che sono predisposti a sviluppare forme meno gravi o asintomatiche della malattia Covid-19. Inoltre i livelli sierici dei tre geni individuati potrebbero essere utilizzati come marcatori prognostici della malattia grave. Infine, oggi sappiamo qualcosa in più sulle basi biologiche di questa malattia e dunque abbiamo qualcosa su cui lavorare per sviluppare nuovi trattamenti farmacologici”.

Lo studio

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