La gravità con cui il Covid-19 si manifesta nei pazienti dipende da cause genetiche e immunologiche: sono questi i fattori che spiegano il 15% delle forme acute di coronavirus secondo una ricerca coordinata da Jean-Laurent Casanova, della Rockefeller University, e pubblicata sulla rivista Science. Lo studio è stato condotto dal Consorzio Internazionale di Genetica Covidhge, di cui fa parte anche l’Italia, attraverso il Laboratorio di Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata diretto da Giuseppe Novelli, l’Istituto San Raffaele di Milano e l’Ospedale Bambino Gesù di Roma.

Secondo i ricercatori, la genetica è il motivo per cui la risposta individuale all’infezione da SarsCoV2 varia così tanto da persona a persona: la scoperta segna un passo in avanti per le applicazioni che potrà avere nella prevenzione, identificando i soggetti a rischio, e nella terapia. I ricercatori hanno esaminato il Dna di oltre 700 pazienti con manifestazioni cliniche gravi della malattia, identificando mutazioni specifiche che diminuiscono la produzione di Ifn di tipo I (3-4% delle forme gravi), proteine che aiutano a regolare l’attività del sistema immunitario con funzioni antivirali. In altri pazienti invece hanno identificato auto-anticorpi (come una forma di malattie autoimmuni) che bloccano l’azione dell’Ifn di tipo I (10-11% delle forme gravi).

Tutti questi risultati spiegherebbero quindi il 15% delle forme gravi di Covid-19. “I geni attivi nei meccanismi di difesa – spiega Novelli, co-autore della ricerca – quando mutati sembrano favorire la gravità della malattia. Questo studio dimostra che i nostri geni possono quindi influenzare il modo in cui il sistema immunitario risponde a un’infezione, e quindi chiarire perché alcune persone presentano sintomi più gravi della malattia e indirizzare un sottogruppo di pazienti verso una terapia mirata”.

“Immediate ripercussioni sulla terapia” – La ricerca è stata pubblicata su Science in due distinti articoli: il primo descrive le mutazioni riscontrate nei pazienti con forme gravi di Covid-19 in 13 geni della famiglia degli interferoni, già noti per essere coinvolti nella suscettibilità genetica all’influenza. Indipendentemente dalla loro età, le persone con queste mutazioni sono maggiormente a rischio di sviluppare forme gravi di influenza o di Covid-19. “La scoperta ha immediate ripercussioni sulla terapia“, rileva Novelli. Infatti, suggerisce l’impiego di interferone di tipo 1 in questi pazienti e può costituire un valido percorso terapeutico, considerato che questo farmaco è conosciuto da più di 30 anni e non ha dimostrato effetti collaterali evidenti se assunto per un breve periodo di tempo.

Il ruolo degli auto-anticorpi – In un secondo studio, i ricercatori hanno rivelato la presenza di elevati livelli di auto-anticorpi, cioè di anticorpi il cui bersaglio non è un agente esterno patogeno (batteri, virus, parassiti etc.) ma molecole proprie dell’organismo, tipici delle malattie autoimmuni. Questi auto-anticorpi sono in grado di neutralizzare l’effetto antivirale dell’interferone, e si ritrovano in più del 10% dei pazienti con una grave polmonite da Sars-Cov-2, mentre sono assenti nella popolazione generale. La loro presenza, spiegano i ricercatori, impedisce alle molecole degli Ifn di tipo I di agire contro il virus.

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