Dall’aprile 2021 al febbraio 2022 Amnesty International ha svolto lunghe interviste con 34 addetti o ex addetti alla sicurezza, loro supervisori e consulenti sanitari aziendali del Qatar. Ne ha tratto un rapporto, che dimostra come il lavoro forzato resti, anche nel settore della sicurezza privata, ancora un fenomeno sistemico e strutturale.

Le 34 persone intervistate sono o erano impiegate da otto agenzie di sicurezza che forniscono servizi a uffici governativi, stadi di calcio e altre infrastrutture essenziali per lo svolgimento dei Mondiali di calcio del 2022 come alberghi, mezzi di trasporto e altri impianti sportivi. Almeno tre delle otto aziende avevano già lavorato per tornei della Federazione internazionale delle associazioni calcistiche (Fifa), come i Mondiali per club del 2020 (rinviati al 2021 a causa della pandemia) e la Coppa araba del 2021.

Iniziamo dall’orario di lavoro. Le leggi del Qatar prevedono un massimo di 60 ore di lavoro settimanali, straordinario incluso, e stabiliscono che ogni lavoratore ha diritto a un giorno di riposo retribuito alla settimana, coerentemente con quanto previsto dalle leggi e dagli standard internazionali: il riposo è un diritto umano fondamentale.

Ciò nonostante, 29 dei 34 addetti alla sicurezza intervistati da Amnesty International hanno dichiarato di aver lavorato sempre 12 ore al giorno e 28 di loro hanno aggiunto che è stato loro negato il giorno retribuito di riposo. Questo significa che la maggior parte di loro ha lavorato 84 ore alla settimana. Per ottenere il giorno di riposo cui avevano diritto, gli addetti alla sicurezza dovevano chiedere il permesso ai loro datori di lavoro. Questo veniva spesso rifiutato e farlo senza autorizzazione poteva dare luogo a trattenute sullo stipendio, in pratica lavoro forzato.

Le leggi del Qatar chiedono al lavoratore di dimostrare lo stato di malattia dal primo giorno di assenza dal lavoro, attraverso un certificato medico approvato dal datore di lavoro. Tuttavia, in un contesto in cui i lavoratori migranti hanno difficoltà ad accedere alle cure mediche, ad esempio a causa del luogo in cui lavorano o della mancanza di tempo libero, queste norme sono inattuabili e consentono ai datori di lavoro di punire i loro dipendenti.

Alcuni addetti alla sicurezza hanno riferito di aver subito sanzioni economiche per “infrazioni” come non indossare in modo corretto la divisa da lavoro o per aver lasciato la propria postazione per andare in bagno senza trovare qualcuno che li sostituisse.

Quindici degli addetti alla sicurezza intervistati da Amnesty International hanno regolarmente lavorato sotto una calura intensa, anche durante i mesi estivi nei quali lavorare all’esterno dovrebbe essere limitato e, in alcuni casi, senza riparo o acqua per dissetarsi, nonostante i rischi per la salute ampiamente documentati e denunciati dalla stessa Amnesty International.

Dal 2017 sono in vigore restrizioni al lavoro all’aperto nei mesi più caldi. Nel 2021 l’orario in cui vige il divieto di lavorare in estate è stato allungato e i lavoratori migranti hanno il diritto di fermarsi se avvertono che il caldo estremo possa minacciare la loro salute. Ma, come racconta Emmanuel, addetto alla sicurezza nella piscina, nella spiaggia e nel parcheggio di un albergo di lusso:

“Quando fa molto caldo, la legge dice che nessuno dovrebbe lavorare all’aperto… Ma noi che ci occupiamo della sicurezza, dove dovremmo stare?”

A questa domanda, non c’è ancora risposta.

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