Nel trentaduesimo giorno di invasione dell’Ucraina il teatro del mondo mette in scena una cacofonia di testi ambigui recitati da attori mediocri per i rispettivi pubblici, pronti a tributare applausi rituali agli interpreti dei propri preconcetti. L’uomo del Cremlino, che si crede uno zar redivivo, riduce a un incubo a pronta presa il suo sogno delirante di richiamare in vita la Santa Russia, l’impero dai Romanov a Stalin; per il conforto di un popolo ridotto a gregge da un’interrotta campagna di colonizzazione del pensiero e per l’ammirazione dei cultori della forza priva di remore non meno di un machismo a cui ci si sente gratificati nel sottomettersi.

L’uomo della Casa Bianca, il politicante ottuagenario fossilizzato da un’esistenza di compromessi, prova a ricavare il massimo di vantaggi materiali per la propria parte da una guerra guerreggiata a sanzioni che danneggiano più gli alleati europei che il nemico post-sovietico, creando le condizioni per una recessione mondiale; destinata a diventare l’imprevista pietra tombale dell’egemonia stelle-e-strisce.

I bottegai europei che si danno appuntamento a Bruxelles, incerti se temere di più la minaccia di un coinvolgimento bellico o la carestia energetica che li metterebbe in rotta di collisione con le attese di mantenimento dei livelli standard consumistici dei propri elettori, oscillano tra il ponziopilatismo affaristico di volgere lo sguardo altrove e la cinica furberia di armare combattenti in propria vece.

Minacce, ipocrisie e pigolii miserabili sovrastati dal sussurro possente del pacifismo; l’arroganza, avvolta nei veli di un’apparente modestia, della pretesa di anteporre alla realtà il dottrinarismo di chi dalla catastrofe umanitaria trae l’occasione per esibire il candore del proprio abito morale, la bellezza superiore della propria anima. Per cui si danno per scontate uscite di sicurezza dall’aggressione di pura fantasia – quale l’entrata in gioco di un movimento pacifista russo di cui non esiste traccia – oppure ci si appella alle virtù taumaturgiche della preghiera in base alla certezza “che Dio disinnesca il rancore e restituisce la pace”.

Ma quale Dio, di grazia? Visti che nella millenaria ricerca religiosa dell’umanità abbiamo conosciuto anche divinità guerriere e bellicose, compreso il Dio cristiano e i suoi adepti: dai persecutori di Ipazia, scuoiata viva perché pagana nell’Alessandra d’Egitto del V secolo, ai crociati, agli inquisitori che il 17 febbraio 1600 a Campo dei Fiori arsero vivo Giordano Bruno, su fascine di legna verde, proprio perché il tormento durasse a lungo dandogli più tempo per pentirsi. Quei pacifisti che ritengono di salvare le vite degli ucraini insieme alla propria anima convincendoli ad arrendersi. Per – dicono loro – “evitare una carneficina”. Tesi che – magari – si potrebbe perfino discutere se tale carneficina non fosse già in atto. E la fierezza del popolo ucraino non meritasse più di un pavido invito alla resa dalla doppia matrice: ricavare a spese degli aggrediti la conferma delle proprie certezze di incrollabili credenti; far sparire la prova fattuale che tali certezze smaschera.

Sicché, in questo scenario di guitti e saltimbanchi, si potrebbe serenamente affermare che l’unico attore di classe è proprio il popolo ucraino che resiste, nonostante la palese disparità di forze con il proprio assalitore, la solidarietà pelosa e titubante dei propri presunti amici. E questo a prescindere da qualsivoglia pregresso che vorrebbe intorbidare il giudizio o dal gioco fariseo che gabella per superiore saggezza il cerchiobottismo in materia di responsabilità storiche.

Una resistenza che dovrebbe suscitare ammirazione in ogni mente e cuore che si dichiari dalla parte dei liberi cittadini in armi a difesa della propria terra e della propria società. E che così facendo hanno saputo scrivere pagine di storia vittoriose. Dal New Model Army, l’esercito di popolo allestito da Oliver Cromwell che, nel giugno 1645, sconfisse a Naseby l’assolutismo degli Stuart; o i padri e figli, armati alla bene-meglio, che accorsero dai lati dell’Esagono per difendere i confini di Francia e la loro rivoluzione repubblicana. Li chiamarono “gli straccioni di Valmy”, accompagnati da un canto che parlava di libertà, fraternità ed eguaglianza. Per loro valse quanto, secoli dopo, disse il filosofo Bertrand Russell dei suoi concittadini che resistevano al nazi-fascismo: “ormai tutti avevano capito che gli inglesi erano stati sconfitti. Tranne loro. Che continuarono a combattere sino alla vittoria”.

Intanto – alla faccia dei consiglieri di sconfittismo e degli sfruttatori di coraggio altrui – la resistenza ucraina sta aprendo crepe sempre più vaste nel morale dell’esercito russo e nel sistema di potere putiniano. Un’altra storia alla Bertrand Russell?

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