C’è un’immagine che meglio di tutte rappresenta la disfatta di questo nostro calcio, vecchio e senza talento. Non sono gli azzurri in lacrime in mezzo al campo al termine della sfida contro la Macedonia del Nord, e nemmeno Mancini che si sbraccia inutilmente in panchina, realizzando che non passerà alla storia soltanto come il ct della vittoria agli Europei, ma anche come quello della figuraccia mondiale. A un certo punto durante la partita le telecamere hanno inquadrato in tribuna il presidente della Figc, Gabriele Gravina, e i suoi vice Umberto Calcagno e Francesco Ghirelli, che messi insieme fanno quasi 30 anni di governo in Federazione. La fotografia perfetta di un calcio italiano che non cambia, e non fa neppure finta di cambiare. E così dopo quattro anni si ritrova allo stesso identico punto: all’anno zero.

L’apocalisse nazionale l’avevamo già vissuta nel 2017: un’umiliazione storica, che sembrava irripetibile. È accaduto di nuovo. E così riparte anche il processo sommario al pallone italiano: i giovani che non giocano, gli stadi vecchi, i club allo sbando. Le parole che si sentono oggi potrebbero essere tranquillamente di quattro anni fa. Frasi già sentite, perché la mancata qualificazione della nazionale ai Mondiali è un film già visto. Solo che tutti i buoni propositi, che erano stati anticipati già nel lontano 2010 dopo il pessimo Mondiale in Sudafrica, ripetuti nel 2014 con la figuraccia in Brasile, urlati ai quattro venti nel 2017 per il tracollo con la Svezia, sono rimasti lettera morta nei programmi dei vari dirigenti. Che cosa ne è stato, ad esempio, delle accademie federali sul modello di Belgio e Germania, create anni fa in pompa magna da Tavecchio, rilanciate dallo stesso Gravina, tutt’ora esistenti, di cui però non si conoscono utilità e risultati? E che dire della tanto attesa riforma dei campionati, che dovrebbe ridurre il numero delle società professionistiche ormai insostenibile, a partire proprio dalla Serie A fino ad arrivare in Serie C dove i club muoiono come mosche? Tutto impantanato negli interessi di bottega di questa o quella categoria, bloccato dai veti incrociati, caduto nel dimenticatoio per tornare d’attualità adesso che il danno è fatto, fino al prossimo successo buono a nascondere la polvere sotto al tappeto, come gli ultimi Europei.

Le colpe, ovviamente, non sono solo di Gravina, come non erano soltanto di Mancini. Il ct per ora resta al suo posto: c’è la beffarda amichevole di martedì contro la Turchia, molto peggio di una finale di consolazione, poi si vedrà. La sensazione è che possa lasciare dopo una sconfitta così dolorosa. Il rischio è che finisca per essere l’unico capro espiatorio. Il presidente Gravina infatti ha spiegato che “non c’è il minimo spiraglio di sfiducia”. Anche questa non è una sorpresa: nonostante i suoi nemici (quasi solo in Serie A, in testa Claudio Lotito) si siano subito messi all’opera, non ha intenzione di farsi da parte. Sono mesi che lo ripete attraverso il megafono della stampa amica. E del resto non lo aveva fatto nemmeno Carlo Tavecchio, che quattro anni fa fu portato alle dimissioni dalla pressione dell’opinione pubblica e del n.1 del Coni, Giovanni Malagò (si attende di sentire la sua voce). Nessuno può pensare che Gravina sia il responsabile di una disfatta che nasce da lontano. Così come nessuno (tranne forse il diretto interessato) pensava fosse l’artefice del trionfo agli Europei. Certo è che anche lui, come chi l’ha preceduto, fa parte della “casta” autoreferenziale del pallone, che non ha fatto nulla, o comunque non abbastanza, per cambiare il movimento.

È un po’ l’evoluzione estrema del principio gattopardesco per cui “bisogna che cambi tutto perché nulla cambi”: nel calcio italiano i volti non cambiano neppure, si scambiano solo le poltrone. Gravina, ex n. 1 della Serie C, ha come suo braccio destro Ghirelli, attuale capo della terza divisione, già segretario ai tempi di Calciopoli. L’ultima new entry in maggioranza è l’eterno Giancarlo Abete, 71 anni, ex n.1 Figc, piazzato a presidio dei Dilettanti giusto tre giorni prima dell’infausto spareggio. Ed è questa la corte che ora lo mette al riparo da improbabili scossoni politici.

“C’è qualcosa da fare, non parlo solo di riforme e indici di liquidità, c’è un tema di giovani che non giocano”, dice oggi Gravina per rilanciare il suo governo. E ha ragione, se non fosse in carica dall’ottobre 2018. Nei suoi due spezzoni di mandato, ha praticato un potere politico spregiudicato, portato avanti narrazioni pompose (“Rinascimento azzurro”, “Progetto Fenice”) tradotte in piccoli successi (nuove regole su giustizia sportiva e licenze nazionali, sviluppo del settore femminile). Ha lavorato bene sul marketing, aumentando i ricavi. Di mezzo c’è stato anche una pandemia, affrontata con merito: il suo contributo è stato decisivo per far ripartire i campionati. Ma le riforme strutturali, a partire da quella dei campionati, non sono arrivate. Ancora una volta, non è cambiato nulla per davvero. Anzi, una cosa sì: lo stipendio del presidente federale, passato dai 36mila euro lordi annui previsti dal Coni, a un massimo di 240mila, in qualità di capo del Club Italia. Ironia della sorte, è la struttura responsabile della nazionale. Non di questo fallimento, però.

Twitter: @lVendemiale

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