Il 21 febbraio sostenevo: “Putin vuole rifare l’Urss”. Quella stessa sera in tv il leader russo riconosceva ufficialmente le repubbliche separatiste del Donbass, sue creature. Inoltre negava il diritto di esistere dell’Ucraina, “creatura artificiale dei bolscevichi” e “parte inalienabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale”. E lasciava trapelare mire territoriali più vaste, non per rifare l’Urss, ma l’impero zarista. Queste dichiarazioni suscitavano allarme e proteste nei paesi vicini, in particolare in Kazakistan, costringendo Putin a smentire.

Le dichiarazioni di Putin dal 2004 ad oggi rivelano la mission che il presidente russo si è dato: rifare la grande Russia. Esse gettano luce su vent’anni di guerre in Cecenia, Georgia, Crimea, Donbass e Ucraina. Non si trattava di episodi locali ma di una grande strategia che prevede ancora l’annessione della Transnistria, il ridimensionamento di Lettonia, Lituania e persino della Polonia.

Putin presenta una versione “idilliaca” dell’imperialismo russo (Ucraina e Russia “indivisibili” fratelli, ecc.). Ma la sua visione non è condivisa dai popoli dell’Europa dell’est che per secoli hanno subito il tentativo dei russi di cancellare le loro identità. In Ucraina già un trattato del 1659 dava allo zar il potere di veto su nomine e politica estera dei cosacchi. Nel 1720 fu vietata la pubblicazione di libri in lingua ucraina. Nel 1804 fu proibito l’uso dell’ucraino nelle scuole. Dopo la carestia provocata del 1933 (quattro milioni di morti), la “russificazione” di Breznev generò altri martiri (Makukh, Hirnyk). Dal 2014 è ripresa in Crimea e Donbass. Insomma: “Every century, Russian leaders have continued the efforts to erase Ukrainian identity by attacking the use of the Ukrainian language, banning Ukrainian literature, persecuting Ukrainian cultural leaders and destroying any attempt Ukrainians have made to preserve their heritage” (C. Buchatskiy, Stanford).

“La Nato circonda la Russia”: le frontiere in comune

Quando Putin dice: “l’Ucraina non esiste” intende: “Non deve esistere”; una posizione tradizionale dei nazionalisti russi (la Nato è al tempo stesso un pretesto e un ostacolo da rimuovere). Perciò ora Putin martella sistematicamente obiettivi civili ucraini: scuole, ospedali, chiese, università, abitazioni. Il tiro al bersaglio sui corridoi umanitari accompagna la fuga di milioni di profughi; altri saranno poi deportati. Il “genocidio a metà” serve a traumatizzare e piegare chi resta cancellandone il mondo anche interiore, i legami, l’identità.

E gli ucraini? Quali i loro obiettivi? Sabato sera, a Otto e Mezzo, Concita De Gregorio e i suoi ospiti si arrovellavano sulla questione senza venirne a capo. Invasati? Zelensky è pazzo? S’illudono di battere i russi? E giù analisi sull’inevitabilità della sconfitta. In verità, gli ucraini hanno ben chiara la situazione. Non si arrendono perché preferiscono morire piuttosto che vivere in schiavitù. “Vogliamo la pace, ma l’Ucraina deve essere libera e indipendente” ripetevano ieri all’inviato di Rai2 due anziane signore di fronte al loro palazzo bombardato. Provano a cambiare l’equazione costi-benefici dei loro aggressori e a negoziare. In questo quadro, “solidarietà all’Ucraina, ma non diamogli armi” è una beffa.

Il peggio per loro deve ancora arrivare. Possiamo intervenire? Sì, se capiamo le (vere) regole del gioco. Putin è pericoloso, ma non è pazzo. Persegue una strategia razionale, prevedibile. Si è sempre mosso con cautela: celando le sue vere intenzioni; assicurandosi la neutralità cinese; attaccando i più deboli. Non comprometterà la posizione sua e della Russia “rilanciando” contro forze pari o superiori. Ma lo farà contro iniziative deboli (no fly zone) o eccessive. La minaccia nucleare è un bluff. Come dice Dugin, suo consigliere: “Se [in Ucraina] ci sarà un attacco diretto della Nato, la Russia risponderà con mezzi simmetrici [convenzionali]. Se ci sentiremo minacciati sul nostro territorio, useremo le armi nucleari”. La terza guerra mondiale? È già iniziata nella mente di Putin, quindi lo è. Ma l’enorme reciproca deterrenza indurrà, in tutti, grande autocontrollo (con i forti) e spietatezza (con i deboli).

“Salvare Kiev”? In gioco c’è molto più che l’Ucraina, come nel 1939 molto più che Danzica. Nel 1927 la Società delle Nazioni all’unanimità decise che la “guerra di aggressione” è un crimine internazionale. A Norimberga (1946) uno dei capi d’imputazione contro i nazisti fu “aver pianificato, iniziato e intrapreso delle guerre d’aggressione”, considerate il “crimine supremo”. Viceversa, veniva riconosciuto “the right of legitimate … resistance to an act of aggression“. Questi valori, opposti a quelli nazisti, sono oggi nella Carta dell’Onu. E nel martirio odierno degli ucraini c’è un elemento di scelta, un rifiuto all’abiura del diritto internazionale e della dignità, che è illuminante. Avrebbe fatto inorridire Machiavelli: il suo limite (di cui la nostra cultura è pregna) fu proprio quello di non considerare che certe sconfitte valgono più di certe vittorie.

Non salvare Kiev, per noi, significa accettare da ora in poi le nuove regole del gioco di Putin, significa aver già perso. Ma l’appello alla libertà che giunge dall’Ucraina (e dalle città russe) chiama in causa tutti quelli che, come Putin, vivono ancora nel mondo bipolare di Yalta, delle sfere d’influenza, dove è normale che la Russia (l’America, la Cina, …) reagisca nel suo cortile di casa. La linea di divisione fra liberali e yaltiani attraversa le nazioni anche al loro interno. Perciò quell’appello ha una valenza universale. E rinvia i nostalgici di Yalta alla Corte penale internazionale dell’Aja.

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