L’uomo se ne sta in posa con le braccia che penzolano lungo i fianchi. Non sorride all’obiettivo, guarda solo dritto davanti a sé con un’espressione seria che sconfina in fissità. Per riconoscerlo ci vogliono diversi secondi. Perché è immerso in un contesto totalmente diverso da quello in cui il mondo è abituato a osservarlo. I suoi tatuaggi sono coperti da una tuta mimetica, la sua fronte è celata da un berretto verde, il suo petto non è avvolto da una cintura di campione del mondo, ma dalla tracolla di un fucile. È una sensazione straniante. Perché quell’uomo si chiama Vasyl Lomachenko ed è uno dei pugili più dotati della sua generazione. O forse lo era. Perché quel ragazzo che mandava al tappeto un avversario dopo l’altro ora ha deciso di rispondere a un’altra chiamata. Un paio di giorni fa Vasyl è tornato a BelgorodDnestrovsky, la città dove è nato, un agglomerato di neanche cinquantamila abitanti nel sud-ovest dell’Ucraina. E poi ha chiesto di arruolarsi nell’esercito per difendere Odessa.

“Il battaglione di difesa territoriale Belgorod-Dnestrovsky è stato addestrato e armato. Il pugile Vasyl Lomachenko è uno di questi”, ha scritto sui social il sindaco della città Vitaliy Grazhdan. È un post che contiene una notizia. Ma soprattutto un annuncio. Significa che l’Ucraina può contare sui suoi figli più famosi. Forse più dal punto di vista propagandistico che balistico, ma è difficile oggi capire quale dei due aiuti sia più indispensabile. “Per me il fronte è un orribile gorgo. Mentre ancora ne sei lontano, là dove le acque sono ancora tranquille, già lo senti che ti assorbe, che ti attira, con una forza lenta, invincibile, che distrugge senza fatica ogni tua resistenza“, scrive Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentali. Parole uscite nel 1929, che raccontano di una guerra molto diversa, dove gli uomini si logoravano in trincea, dove la morte rimaneva un fatto personale e remoto, dove chi tornava dal fronte doveva inventarsi una nuova vita, magari ritagliandosi un sentiero in salita verso la fama (quello di Remarque è stato uno dei primi grandi bestseller del Novecento).

Ora la guerra televisiva ha cambiato anche queste regole. Le linee del fuoco hanno bisogno di reclute in grado di fermare il piombo. Ma anche di stelle che possano parlare in prima persona, che siano in grado di spiegare le proprie ragioni a quell’entità astratta chiamata comunità internazionale. Così dopo i fratelli Vitali e Vladimir Klitschko, ora tocca a Lomachenko. E Vasyl ha deciso di tornare lì dove tutto è iniziato. È fra le strade di Belgorod-Dnestrovsky che l’idea di diventare pugile è diventata qualcosa di più vicino alla realtà che al sogno. Merito anche di papà Anatoly, uno degli allenatori più stimati di Ucraina. Quando Vasyl ha tre giorni il padre gli infila un paio di guantoni da boxe. Per scherzo. Ma neanche troppo. A quattro anni iniziano gli allenamenti. Tutti i santi giorni. Fino al suo nono compleanno. Allora suo padre si è esibito in un gioco di prestigio. Basta pugilato. Meglio imparare danza. Anzi, i balli tradizionali ucraini. Vasyl è perplesso, ma obbedisce. Balla per qualche anno. E secondo qualcuno ottiene in cambio un’abilità particolare nello schivare i colpi e nell’attaccare gli avversari in modo molto diversi. Poi un giorno Anatoly se n’è uscito con un’altra idea. Meglio esercitarsi anche nelle gare di apnea. Vasi obbedisce di nuovo. E fissa il proprio tempo limite a 4 minuti e 20 secondi.

“Diventare davvero bravo sul ring significa sviluppare sia le tue abilità mentali che fisiche – ha detto Lomachenko al Guardian qualche anno fa – Devi assicurarti che tutte queste cose funzionino al meglio delle loro capacità per avere successo come pugile”. Ma Anatoly ha lasciato al figlio anche un altro dono: una mania per la ricerca della perfezione. I risultati arrivano presto. Vasyl vince due ori Olimpici (Pechino 2008 e Londra 2012). Prima di diventare professionista disputa 397 incontri. Ne perde uno solo. Poi vince tre titoli mondiali in altrettante categorie di peso in appena dodici incontri. È un risultato che lo avvicina più alla leggenda che alla storia. Un po’ come Oleksandr Usyk, il quarto asso della boxe ucraina che è corso al fronte. Anche lui dopo averlo annunciato via social.

Il campione in caria dei pesi massimi IBF, WBA, WBO e IBO e medaglia d’oro a Londra 2012 ha parecchio a cuore il concetto di fratellanza. Nato in Crimea, ha deciso di mantenere la cittadinanza ucraina anche dopo l’annessione della penisola alla Russia nel 2014. Ora è andato oltre. Per prima cosa Usyk ha lanciato un messaggio abbastanza chiaro su Instagram: “Buongiorno a tutti. Mi chiamo Alexander Usyk. Vorrei parlare con il popolo russo. Se ci consideriamo fratelli, ortodossi. Non permettere ai tuoi figli di partire per il nostro Paese, non combattete contro di noi”. E ancora: “Mi sto rivolgendo anche al presidente Vladimir Putin. Puoi fermare questa guerra. Per favore, siediti e negozia con noi senza pretese. I nostri figli, mogli, nonnine si nascondono nelle basi. Siamo qui nel nostro paese, non possiamo farlo in nessun altro modo, ci stiamo difendendo. Basta! Ferma questa guerra. No alla guerra!”. Poi però è passato ai fatti. Si è fatto fotografare in camicia, pantaloni, zuccotto e stivaletti neri con un una mitragliatrice nella mano sinistra. Accanto a lui c’è anche Andrii Nebytov, capo della polizia di Kiev. Nella sua intervista al Guardian, Lomachenko ha detto: “Tutti i pugili pensano alla loro eredità e io non sono da meno. A volte mi svuoto totalmente, non penso più solo a essere un atleta perfetto. Ma dura poco. Penso che ogni persona nel mondo abbia il suo posto. Devo continuare a lavorare, perché tra 30 anni, quando ci guarderemo indietro, allora vedremo come sarò ricordato”. E in quest’ottica la sua foto in divisa vale forse più delle medaglie conquistate in carriera.

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