di Riccardo Cristiano*

Quando in Argentina cominciava a diffondersi l’idea di proporre una ratifica dei matrimoni omosessuali, l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, suggerì ai suoi di giocare in attacco, non di rimessa. Ad una riunione della Conferenza Episcopale Argentina, che presiedeva, fece presente che gli omosessuali avevano il diritto a fruire di tutti i benefici di legge che derivano dalle unioni civili. Questo avrebbe tutelato un diritto e offerto alla Chiesa di difendere il matrimonio, che è tra un uomo e una donna. I confratelli nell’episcopato di Jorge Mario Bergoglio non ritennero di starlo a sentire, respinsero la sua idea e in Argentina si votò la legge che consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Oggi che è vescovo di Roma, Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, ritiene che giocare in difesa sia sempre un errore. Lasciare aggravarsi i problemi senza offrire soluzioni ragionevoli alle emergenze apre la strada a nettezze che finiscono per prevalere. Così è difficile ritenere che Francesco condivida l’idea diffusa in molti ambienti cattolici che la decisione della Corte Costituzionale di ritenere non ammissibile il referendum sul suicidio assistito sia, dal punto di vista ecclesiale, un vantaggio che fa tirare un sospiro di sollievo. Il problema rimane, e volendo si potrebbe solo ritenere che si è guadagnato del tempo.

Ma non siamo davanti a un valore non negoziabile, la difesa della vita, dal concepimento alla morte naturale? E già, è certamente così. Ma i tempi cambiano e oggi si dà il caso che ci siano malattie e terapie che possono bloccare un essere umano per anni, senza speranza alcuna, solo atroci sofferenze, o incoscienza. E non basta dire no all’accanimento terapeutico per risolvere il problema. Quando sussiste il vero accanimento terapeutico, quale caso certamente lo è? La società vede casi limite, ma casi concreti, di persone in carne e ossa. E si interroga.

La Chiesa no? Resta chiusa nella sua torre eburnea di difesa senza se e senza ma? Questa Chiesa sarebbe una Chiesa chiusa, non una Chiesa in uscita, come quella di cui parla Francesco. La Chiesa in uscita riconosce la società, non si ritiene una società perfetta la cui legge è indiscutibile. In definitiva la Chiesa in uscita rifiuta il non expedit. Che cos’è? Come sempre Wikipedia ci aiuta a trovare una definizione semplice di cose un po’ complesse: “Non expedit è una disposizione della Santa Sede con la quale si dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni politiche del Regno d’Italia e, per estensione, alla vita politica nazionale italiana, sebbene tale divieto non fosse esteso alle elezioni amministrative”. La Chiesa riteneva lo Stato italiano un usurpatore. Poi Benedetto XV consentì ai cattolici di aderire al Partito Popolare di don Sturzo. Oggi non c’è più il partito dei cattolici, ma i cattolici in tanti partiti.

Proponendo l’idea dei principi non negoziabili il Vaticano ha di fatto detto ai cattolici che loro sono nella società, vivono in essa, ma fino a un certo punto. La società cattolica, cioè la Chiesa, ha dei limiti invalicabili in certi e indiscutibili principi. La difesa della vita è uno di questi. Ma a forza di parlare di difesa della vita dal concepimento alla morte naturale la Chiesa ha dato l’idea di difendere la vita del non nato e del moribondo, tutto il resto della difesa della vita è risultato affidabile alla libera negoziazione tra le parti.

Questa idea salta con Francesco. La Chiesa dovrebbe far capire che vuole difendere la vita sui barconi come nelle borgate, dei moribondi come di chi non trova lavoro. Ma senza imporre una legge che rende obbligatorio la piena occupazione, o l’accoglienza di tutti. Vale anche per il suicidio assistito?

I fatti della vita e della morte sono così grandi e profondi che la Chiesa deve occuparsene. E così la rivista dei gesuiti, La Civiltà Cattolica, le cui bozze vengono preventivamente dalla Segreteria di Stato, ha pubblicato un articolo fondamentale nel quale si parla di legge imperfetta. La legge imperfetta è quella legge che non recepisce il nostro punto di vista, non impone ciò che vorremmo. Ma consente di risolvere un problema dai più volti in modo imperfetto. Se tu vedi come essenziale la tutela del diritto di un individuo a dire che non vuol più soffrire senza speranza di poter guarire, io vedo come essenziale la non estensione di questo principio a chi viva un momento di crisi psicologica, o di depressione.

Se una legge, come quella in discussione alla Camera sul suicidio assistito, riuscisse a contemperare queste due priorità diverse avremmo fatto una legge per tutti imperfetta, ma affrontato un problema guardando in avanti, non indietro. E’ la cultura del male minore? No! E’ la cultura del bene maggiore. Ma soprattutto è la cultura dell’expedit, non del non expedit.

In questa cultura approvando una legge che consente l’assistenza al suicidio in casi clinicamente definiti il Papa si riserverebbe di poter dire, come ha fatto pochi giorni fa, che la sua visione è quella di accompagnare alla morte, non di darla. Un altro potrà dire che la sua visione è quella di non negarla, di certo a chi la scienza dice che non avrà più il modo di apprezzarne il sapore, i colori, i suoni, la consistenza. La perfezione non è di questo mondo, l’imperfezione è un bene maggiore se contiene gli opposti estremismi in un’ottica di incontro, non di imposizione.

* Vaticanista di RESET, rivista per il dialogo

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