di Luca Di Giuseppe

La lunga traversata dello Statuto “incompiuto” iniziò il 23 gennaio 2020, il giorno in cui Luigi Di Maio si tolse la cravatta e pronunciò il discorso con cui rassegnò le sue dimissioni da capo politico del Movimento 5 Stelle. Chiunque conoscesse il Movimento sapeva che la sua leadership nei gruppi parlamentari e tra gli eletti sarebbe rimasta inviolata. Nel concludere quel discorso, Di Maio diede il via alla stagione infinita degli Stati generali, e cedette lo scettro a Vito Crimi, che salì sul trono in virtù della sua posizione di membro più anziano del Comitato di Garanzia. Da quel momento lo Statuto del Movimento 5 Stelle iniziò ad essere violato costantemente, per mesi e mesi.

Attenendosi allo Statuto allora vigente, il Movimento 5 Stelle, ai sensi dell’articolo 7, avrebbe dovuto eleggere il nuovo capo politico entro il 23 febbraio 2020. Invece, si decise di seguire la linea dell’ex capo politico: “prima il cosa, poi il chi”. L’idea fu quindi quella di organizzare un Congresso nazionale chiamato “Stati generali”, che avrebbe dovuto dare una nuova identità politica al Movimento: una necessità resasi evidente a seguito del passaggio dal Governo giallo-verde al Governo giallo-rosso. I dirigenti del Movimento giustificarono i continui rinvii degli Stati generali con la crisi pandemica, che in quei mesi si stava amplificando sempre di più. Gli Stati generali avrebbero dovuto tenersi a marzo, ma furono posticipati ad ottobre 2020.

In ogni caso, quel Congresso si sarebbe dovuto occupare unicamente della linea politica, e non di quella organizzativa. La questione organizzativa, anzi, sembrava già essere stata risolta: nei mesi precedenti alle dimissioni di Luigi Di Maio furono introdotti ed eletti le figure dei coordinatori nazionali e regionali (i “facilitatori”). Ma Crimi concentrò il Congresso sulla riorganizzazione interna del Movimento e fece approvare alcune modifiche statutarie. Tra queste, il Capo Politico fu sostituito da un organo collegiale di cinque persone. Il tempo passò, si continuò ad aspettare e alla fine non fu mai eletto neppure l’organo collegiale appena introdotto nello Statuto. Si arrivò così alla crisi del Governo Conte II.

Dopodiché si decise di tornare nuovamente indietro: l’organo collegiale non serviva più, occorreva piuttosto un nuovo Capo, che fu identificato nella figura dell’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Quest’ultimo – dopo alcune beghe con Grillo – fece approvare nuove modifiche allo Statuto, prevedendo l’introduzione della figura del Presidente (Capo) del Movimento. La collegialità fu così dimenticata.

Anche queste modifiche furono sottoposte alla votazione degli iscritti ma, diversamente da quanto imposto dallo Statuto in quel momento vigente, si tennero su una piattaforma diversa da Rousseau. Una volta approvate queste modifiche, fu votato il nuovo Capo. Curiosamente non fu data l’opportunità a nessuno di candidarsi e di correre per la leadership alternativamente a Conte.

Oggi alcune delle modifiche statutarie sono sospettate di essere illegittime dal Tribunale di Napoli. Nel frattempo bisognerebbe fare un’alta riflessione: l’articolo 49 della Costituzione stabilisce che i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale, con metodo democratico, attraverso i partiti. Ma i soggetti politici, oggi, per come sono strutturati, consentono l’applicazione di questo principio? Berlusconi, Conte, Letta, Meloni. Nessuno di loro è stato eletto a seguito di votazioni democratiche.

In un mondo ideale, la proliferazione dei partiti sarebbe auspicabile, se ciascun cittadino – indipendentemente dalle rispettive condizioni economiche e sociali – avesse la possibilità di creare un soggetto politico che rappresenti le proprie idee. Ma essendo questo utopico, sarebbe preferibile iniziare a ragionare sulla stesura di una legge sui partiti, che obblighi chiunque intenda formarne uno a rispettare principi di democraticità interna e regole imposte dalla legge.

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