di Enrico Flor

Nel 2011, con l’incarico a Mario Monti di formare un governo senza politici, l’Italia entrò nell’era dei tecnici. Da quel momento, in maniera graduale ma costante, il discorso politico italiano è diventato sempre meno traducibile in altri paesi europei (e non solo): l’opzione dei tecnici è sempre disponibile e addirittura auspicabile non appena si intraveda il famigerato “fallimento della politica”. I tecnici servono, si dice, per portare a termine quello che la politica non riesce a fare, e finché la politica non matura ci serviranno i tecnici. Chi dice questo riconosce implicitamente che avere personalità non politiche a guida di organi come il governo della Repubblica non è una situazione ottimale: è però una necessità, si dice.

Quello che non si dice è che è totalmente irragionevole pensare che la politica possa mai migliorare in queste condizioni. Anzi, non c’è motivo di escludere che finisca per peggiorare sempre di più. Oltre a essere impensabile nelle altre democrazie moderne, la mentalità dell’era dei tecnici danneggia gravemente la politica togliendole l’essenza irrinunciabile, ossia la responsabilità. Il danno è del tutto simile a quello causato al libero mercato (che magari ha problemi già di suo) dai bail out sistematici dei grossi attori finanziari. Se si sa che il bail out, quando serve, arriva e possiamo fare quello che vogliamo: la capacità teorica del libero mercato di autoregolarsi penalizzando le scelte sbagliate è neutralizzata. Se combiniamo un disastro il salvataggio è assicurato.

Come potrà mai la classe politica diventare più responsabile se tanto, per avere un posto di ministro (e sottosegretario, ecc…) con minima responsabilità politica, basta iniziare la cantilena del “fallimento della politica” e trovare un illustre non-politico che farà da parafulmine? Questo ribalta completamente il rapporto delle responsabilità: dovrebbe essere il lavoro del politico quello di “metterci la faccia”, di pagare il prezzo delle scelte elaborate ed eseguite con l’ausilio dei tecnici.

Il Regno Unito, con la Brexit, è passato attraverso un terremoto politico difficilmente paragonabile a qualsiasi fase politica italiana recente. Il governo May (che nell’Italia post 2011 sarebbe stato senza dubbio tecnico e di “larghe intese”, in seguito al referendum) non riusciva a chiudere l’accordo con l’Ue dopo che la Camera dei Comuni lo aveva respinto più volte. Ormai era un conto alla rovescia, mancavano pochi mesi per evitare il No Deal. A nessuno venne in mente di chiamare un tecnico, un migliore, un competente per mettere in piedi un governo, con tutti dentro o di minoranza. Nessuno si sarebbe sognato di proporre una cosa del genere, perché semplicemente è ovvio (in un paese senza nemmeno una costituzione scritta!) che il compito di guidare il governo va affidato a una figura che rappresenta una parte politica. E perciò, nonostante i tempi strettissimi, il partito di maggioranza relativa scelse un nuovo segretario (attraverso i propri meccanismi di democrazia interna), che poi ricevette l’incarico. Nessun “fallimento della politica”.

Da noi invece è di fatto ormai normale che alla guida dell’esecutivo ci sia una persona senza dubbio capace e di prestigio, ma che non ha mai dovuto dichiarare pubblicamente in vita sua che partito o proposta legislativa ha sostenuto o opposto. Così, i partiti non devono rispondere più di tanto di nulla, perché sono tutti assieme sotto una figura che nessun elettore ha scelto e mai sceglierà: se il tecnico poi si presenta alle elezioni, come fece Monti, si dice che ha commesso un errore politico!

Non sarà facile uscirne. Ma l’unico modo per provarci è convincersi che i tecnici sono come una dose di droga in una crisi di astinenza: mettono una pezza (quando va bene), ma perpetuano il problema.

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