Il primo giorno della chiama per il Colle ha dato l’esito prevedibile, date le premesse, ed il secondo se possibile più caotico ed altrettanto lontano da segni di soluzione è stato contraddistinto da slittamenti di vertici di centrodestra e centrosinistra e da annunci di rose (confermate) e contro-rose (poi smentite da parte del centrosinistra) di nomi di “altissimo profilo”.

La seconda giornata si è comunque conclusa con un niente di fatto con 976 votanti, 527 schede bianche e tra i tanti voti poco o nulla significativi 39 a Sergio Mattarella e 39 a Paolo Maddalena giurista, candidato degli ex 5S.

Dopo aver perso un mese sotto la spada di Damocle dell’autocandidatura irricevibile di B. i partiti si ritrovano al punto di partenza del labirinto che irresponsabilmente hanno tracciato attorno al Colle e da cui non si vede una via d’uscita all’altezza della gravità della situazione e delle legittime aspettative dei cittadini.

Come era stranoto a tutti, far cadere l’opportunità di trovare una maggioranza ampia e condivisa su un nome effettivamente di alto profilo prima della quarta votazione avrebbe significato inevitabilmente lasciare aperta la strada al rischio di uno stallo estenuante o all’elezione del candidato di una parte e, quel che è peggio, senza qualità particolarmente corrispondenti alla complessità, alla delicatezza e al prestigio della funzione.

Sfumata l’opzione di un Mattarella-bis, nel rispetto dello spirito della Costituzione e della manifesta volontà dell’interessato, rimane il balletto dei candidati di bandiera e delle rispettive rose che al momento servirebbero a tenere coperti i nomi “veri”. Bisogna armarsi di molta pazienza per tentare di districarsi tra le mosse e contromosse in campo ma lo stato dell’arte, in prevedibile evoluzione, sul fronte del centrodestra intanto ci offre il trio Nordio, Moratti, Pera. Nomi di “assoluto livello” lanciati in primis da Salvini, non tattici né di bandiera ha assicurato Giorgia Meloni, da spendere probabilmente prima di giocare quelli più forti e coperti di Elisabetta Casellati e Franco Frattini che dalla quarta votazione in poi avrebbero buone chances perché in grado di pescare rispettivamente tra il gruppone del centro e nel M5S oltre che nella insondabile terra di nessuno del gruppo misto.

E naturalmente vengono spacciati per nomi “inattaccabili” anche se la presidente del Senato è sempre la stessa che ai tempi di Ruby-Rubacuori marciava contro i magistrati di Milano, assicurava che Mubarak aveva parlato con B. della nipote e sosteneva strenuamente il ddl sul processo breve finalizzato a cancellare i due, Mills e Mediaset, che allora impensierivano di più il suo sponsor politico.

Così come Franco Frattini, già ministro berlusconiano e nuovo presidente del Consiglio di Stato, è lo stesso che ha dato il nome alla legge sul conflitto di interessi che non ha minimamente scalfito la rete di influenza di B.

Sul fronte opposto del centrosinistra si è registrato il dietrofront sull’annunciata contro-rosa che doveva includere Riccardi, Severino e Grasso, a favore di un incontro nella terza giornata di voto tra una delegazione ristretta di tutti i leader – “un conclave”, come lo ha definito Enrico Letta da cui deve uscire l’agognato quanto inesistente nome condiviso almeno da tutte le forze dell’attuale maggioranza.

Se il centrodestra ha fatto la sua proposta ufficiale e tiene relativamente coperti i suoi “pezzi da 90” (Casellati e Frattini) a sinistra, a parte Riccardi lanciato come intenzione ed obiettivamente non competitivo e la Belloni solo evocata, rimangono sul tavolo anche se non troppo ostentati Giuliano Amato e Pierferdinando Casini. E non deve essere proprio un caso che Pierfurby, nel secondo giorno del balletto quirinalizio a vuoto in cui si è ulteriormente consolidato il fronte anti-Draghi e dopo un lungo e studiato inabissamento, abbia voluto comunicare su Instagram che “la passione politica è la mia vita” con tenerissima foto di adolescente che già guidava i giovani democristiani, e aggiunta di cuoricino e tricolore.

Clemente Mastella sempre pronto a intercettare l’aria che tira ha benedetto “l’accoppiata benvista dai mercati internazionali” con Draghi imbullonato a palazzo Chigi a semigovernare per qualche mese in vista di una campagna elettorale incandescente e Casini al Colle per sette anni già da ora burrascosi sul fronte interno e più ancora su quello internazionale.

Per singolare coincidenza mentre si moltiplicano le voci di chi “vuole preservare Draghi” in vista della volata finale per il Colle, come continua a dire Letta forse lui (solo) in buona fede, si innalza di ora in ora il muro anti-Draghi che stanno erigendo in perfetta sinergia Conte, Tajani e Salvini. E parallelamente in nome del ritrovato primato della politica, di “buona memoria”per chi ricorda l’uso che ne è stato fatto all’indomani di Mani Pulite contro la supplenza ed il presunto sconfinamento della magistratura, riprende quota per la massima carica dello Stato un campione dell’opportunismo e del trasformismo per tutte le stagioni come Pierfurby.

Il rischio che Casini vada davvero al Quirinale, come aveva previsto due mesi fa Giorgio Meletti su Domani, è molto reale: è il più perfetto campione di una classe politica usurata che vuole ritornare a decidere e non si capacita del come e perché si è impantanata, un reduce della prima Repubblica che si è brillantemente riposizionato nella seconda e nella terza. Da sempre perfettamente accasato con la DC, con B. o con il Pd, sponsorizzato per il Colle da Renzi con largo anticipo e particolare non irrilevante, sottolineato da Paolo Mieli a 1/2 Ora in più, è un candidato sottotraccia di cui “1008 su 1009 grandi elettori hanno il numero di telefono in tasca”.

Se la politica pretende la sua riscossa con nomi che evocano la casta ed infiniti cambi di casacca, e vuole premiare ancora una volta un’astuta mediocrità a scapito del merito, non è sulla buona strada. Stoppare Mario Draghi che non ha solo quell’80% di legittimazione a livello mondiale in più di tutti gli avversari attribuitagli da Paolo Mieli, ma “saldezza democratica, standing internazionale, competenza”, riconosciuti anche da chi come Bersani ha dubbi sul passaggio al Colle, sarebbe comprensibile solo proponendo un nome condiviso ed equivalente sotto ogni profilo.

A una domanda sulla possibilità di candidare Draghi al Conte ha risposto in modo risoluto e un po’ piccato: “Difendere Draghi? Il mio ruolo non è difendere il destino dei singoli ma l’interesse nazionale”. E ha rivendicato di mantenere fede ad “un’assunzione di responsabilità” a cui, sottinteso, Draghi si sottrarrebbe se salisse al Colle. Sul percorso e nome: “Super partes, alto profilo e un presidente di cui essere tutti orgogliosi”. Me lo auguro per me, in primis come cittadina e per lui ed il M5S se vogliono avere un futuro politico.

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