Il reddito di cittadinanza non è solo un aiuto mirato a soddisfare bisogni primari dell’individuo, cosa che imporrebbe di non discriminare tra cittadini italiani e stranieri. Si tratta di una misura che persegue “diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale”. Di conseguenza ha un orizzonte temporale di lungo respiro. È su questa base che la Corte costituzionale, nella sentenza 19 depositata martedì, ha ritenuto “non irragionevole” il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo, ottenibile da chi soggiorna regolarmente in Italia da almeno cinque anni. Dichiarando in parte inammissibili e in parte infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla sezione Lavoro del tribunale di Bergamo dopo che una cittadina nigeriana con permesso di soggiorno “per attesa occupazione” si era vista respingere dall’Inps la domanda di sussidio.

La Consulta non si pronuncia sull’altra condizione di accesso imposta ai cittadini stranieri dall’articolo 2 del “decretone” del 2019, cioè essere residenti nella Penisola da almeno 10 anni, criterio censurato dal comitato di esperti per la valutazione del reddito nominato dal ministro del Lavoro Andrea Orlando che ha chiesto di dimezzare il tempo richiesto allineandolo, appunto, ai 5 anni necessari per lo status di soggiornante di lungo periodo. Su questo punto si segnala una clamorosa gaffe dell’Avvocatura dello Stato, che intervenendo in giudizio in rappresentanza del presidente del Consiglio ha sostenuto l’inammissibilità della questione in quanto in caso di accoglimento “il reddito dovrebbe essere concesso agli stranieri sulla base della sola residenza biennale mentre per i cittadini europei ciò non sarebbe sufficiente”. La sentenza redatta da Daria de Pretis, nel valutare infondata questa eccezione, rileva che quel riferimento è “erroneo” perché “il requisito necessario per tutti è la residenza decennale, non biennale, in base all’art.2 comma 1, lettera a, numero 2, del dl 4 del 2019″. Insomma: l’Avvocatura mostra di non conoscere la legge che disciplina il reddito.

Tornando al merito, il giudice di Bergamo contestava la norma per presunta violazione degli articoli 2, 3, 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 14 Cedu e agli articoli 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Secondo il Tribunale, infatti, quella misura “di contrasto a povertà disuguaglianza ed esclusione sociale” (come la definisce la legge) in quanto tale si propone di assicurare un livello minimo di sussistenza e la possibilità di svolgimento della personalità nelle formazioni sociali come previsto dalla Carta. Di conseguenza, in base alla sentenza 187/2010 della Consulta, rappresenterebbe un diritto fondamentale, in quanto garanzia di sopravvivenza della persona. E qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolari volerebbe la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberà fondamentali. Inoltre per il Tribunale mancava una “ragionevole correlazione” tra il requisito del permesso di lungo periodo e le situazioni di bisogno per le quali la prestazione è prevista.

La Corte ha dichiarato infondate entrambe le censure perché il reddito non è, si legge nella sentenza, “una mera provvidenza assistenziale”, ma una più complessa misura di politica attiva del lavoro, che comprende un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale. Di qui “la temporaneità della prestazione”, che come è noto può durare fino a 18 mesi eventualmente rinnovabili, e il “carattere condizionale, cioè la necessità che si accompagni a precisi impegni dei destinatari” (la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, l’adesione a un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale). Ha dunque una “prospettiva di lungo o medio termine” e da questo punto di vista “la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza”.

La Consulta ribadisce che “resta compito della Repubblica garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla sopravvivenza dignitosa e al minimo vitale”, ma “nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito legittima la Corte stessa a “convertire” verso questo obiettivo una misura cui il legislatore assegna finalità diverse“.

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