di Pietro Fucile

Per molte generazioni precedenti a quella dei ragazzi di oggi, il futuro ha rappresentato il luogo in cui far maturare i frutti dell’impegno e delle fiduciose attese. Dobbiamo però prenderne atto, “non esiste più il futuro di una volta” giacché quello che s’intravede sembra digradare in direzione dei paesaggi descritti dalla letteratura distopica.

I grandi interessi economici e finanziari, attraverso i loro terminali politici, concedono ben poco a una reale trasformazione del modello di sviluppo, oggi basato su uno sconsiderato sfruttamento di risorse naturali, che porta in sé l’esacerbarsi delle disuguaglianze e dell’ingiustizia sociale. Operare in direzione di uno sviluppo sostenibile non è però un’esclusiva dei “Padroni della terra”, a volte può essere anche riuscire a contenere una certa propensione al consumo, che purtroppo permea un po’ tutti noi, e che ha un prezzo assai salato da pagare.

Non sembra, ad esempio, essere noto a tanti consumatori (quelli che oggi comprano il 60% in più dell’abbigliamento che compravano un paio di decenni fa) che dopo quella del petrolio, l’industria maggiormente responsabile dell’inquinamento del pianeta è quella in capo al settore tessile e al (troppo magnificato) mondo della moda al quale, stando a un recente studio delle Nazioni Unite, è ascrivibile la responsabilità del 10% delle emissioni di gas serra e del 20% dello spreco totale di acqua.

È così che nuovi e indesiderati paesaggi, sempre più numerosi, prendono consistenza. Come accade in Cile tra le atmosfere surreali del “deserto fiorito” di Atacama, patrimonio Unesco incastonato tra i vulcani della Cordigliera delle Ande e l’Oceano Pacifico. Accanto alle dune di questo luogo unico, nella periferia del porto franco di Iquique, si sono formate colline di abbigliamento invenduto proveniente da Stati Uniti, Europa e Asia da farne pattumiera della fast-fashion: 60.000 tonnellate d’invenduto, ogni anno, a terminare il ciclo di un sistema di pratiche commerciali che stimola acquisti compulsivi di capi a basso costo, messo in pratica da marchi che producono molto più di quanto siano in grado di vendere, e propongono un continuo aggiornamento delle collezioni, anche quindicinale, in luogo delle classiche quattro stagioni.

Il circuito però non regge, è congestionato da questa quantità di scarti che in gran parte non riescono più ad essere veicolati attraverso i commercianti di Santiago né dai canali illegali verso il resto dell’America Latina. Restano lì a decomporsi, all’aperto o sotto la terra del deserto di Atacama, a contaminarne l’aria, la terra e le acque.

Oltre che irrispettoso verso il lavoro che c’è dietro quei manufatti, simili modelli di produzione dovrebbero interrogare le intelligenze di ognuno, non solo per questioni legate alle scelte ecologiche, ma anche rispetto allo sfruttamento di manodopera dei paesi in via di sviluppo che troppo spesso è sotteso a tali pratiche industriali… e anche perché (forse) non sarà il meteorite del film “Don’t look up” di Adam Mckay con Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence a finirci, ma qualcosa di più simile a una camicetta a fiori blu.

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