di Carmelo Sant’Angelo

Ambire in latino vuol dire “andare intorno” (amb- ‘attorno’ e ire ‘andare’), riferito ai candidati alle cariche pubbliche che “andavano in giro” a chiedere voti. Di qui il significato specifico del termine “ambitio-onis”, cioè il giro elettorale alla ricerca del consenso. Anche nell’accezione gnoseologica, non è pertanto sbagliato sostenere che il M5S sia un partito (stop all’ipocrita definizione di “movimento”) senza ambizione.

A meno di 10 giorni dal voto non è stato capace di indicare un nome di una persona degna di aspirare al laico soglio del Quirinale. A questa osservazione Luigi Di Maio, l’eminenza grigia dei pentastellati, ha sempre risposto: “È troppo prematuro, così si rischia di bruciarne il nome”. Coerente con il profilo doroteo dell’interessato, proteso a conservare la posizione di privilegio acquisita. Ha imparato in fretta a maneggiare il potere in silenzio, non a caso Beppe Grillo ammise: “imparo da lui anche quando sta zitto”. Sui sedili posteriori dell’auto della Farnesina si sta formando una conca, adusa ad avvolgere eminenti gobbe ministeriali, e l’illustre passeggero trova andreottianamente ristoro pensando: “sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.

Grazie a queste metamorfosi, in meno di due lustri, si è vergognosamente passati dalle dirette streaming e dalle quirinarie sul web ai conciliaboli segreti, alle pizze con Giorgetti, alle telefonate con Salvini, alle riunioni con Letta. E’ finita la fase propulsiva dell’allora Movimento che indicava ai partiti, sempre più screditati, nuove strade, obiettivi ambiziosi, traguardi coerenti con la tutela della res publica.

Quando nel 2013 l’allora “casta” rieleggeva il suo monarca, i 5 stelle candidavano il prof. Rodotà. Due anni più tardi, quando Meloni e Salvini sostenevano Vittorio Feltri, il Movimento candidava l’ex giudice Ferdinando Imposimato. L’ascesa al potere dei 5 stelle è dovuta, oltre al grande demerito degli altri, alla loro capacità di essere stati il cane San Bernardo al servizio di una politica miope agli interessi dei cittadini. Se Renzi non avesse indossato i finti panni del grillino la sua scalata al Pd sarebbe miseramente fallita. La sua rottamazione è stata, in altri termini, la prosecuzione del “vaffa” con altri mezzi, parafrasando Karl von Clausewitz.

Nella partita per il Quirinale anche il presidente Conte sta adottando una tattica suicida: in pubblico, afferma che “Berlusconi ha fatto cose buone” (ma ad Arcore non ci vivrei -aggiungo io-); nella dialettica con Letta sembra puntare su Draghi, ma solo in presenza di un degno supplente; chiede al centrodestra di indicare un nome “non divisivo”; nelle preghiere serali, infine, implora la permanenza di Mattarella. Ma perché, invece, non coglie l’occasione per individuare una rosa di tre nomi condivisi tra il Movimento e dai fuoriusciti dallo stesso? Sarebbe l’occasione propizia per fare squadra con coloro che, eletti nelle stesse file, non si rassegnano alla mediocrità dei nomi che circolano.

È chiaro che nessun partito e nessuna coalizione (Renzi permettendo) da sola potrà eleggere il Presidente della Repubblica, ma uscire allo scoperto con candidati autorevoli significa, innanzitutto, alzare l’asticella, obbligando gli altri partiti a proporre nomi di peso equivalente. Se da un lato si schiera il capocannoniere della serie A dall’altro non si potrà rispondere con un calciatore a fine carriera della serie B! Spendere dei nomi, inoltre, significa animare il dibattito nella società civile e smentire il canto liturgico che restringe il novero dei papabili a pochi individui.

I prossimi saranno giorni decisivi nella corsa al Colle, ma proverei disgusto nel vedere il partito più ampio del Parlamento votare scheda bianca alle prime tre chiame. Secondo Marco Fabio Quintiliano, maestro dell’arte oratoria, “benché l’ambizione sia vizio tuttavia spesso è causa di virtù”. Di contro, per noi cittadini, “c’è un limite oltre il quale la sopportazione cessa di essere una virtù” (Socrate).

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