Nemmeno la nobiltà di un mistero. È stato subito ammantato dalla banalità di un incidente lo schianto vicino Palermo del volo Alitalia AZ112 che provocò 115 vittime. Era il 5 maggio del 1972 quando l’aereo precipitò in fase di atterraggio contro Montagna Longa, nei pressi dello scalo di Punta Raisi, poi intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Adesso, trascorsi 50 anni dall’incidente, un lavoro di ricerca contenuto in una perizia tecnica, richiesta dall’Associazione familiari delle vittime di Montagna Longa, dà ragione ai dubbi mai risolti di molti e getta ulteriori interrogativi sull’esito di un processo durato 12 anni per concludersi con una sentenza che non ha aiutato a fare chiarezza: impossibile che piloti d’esperienza si andassero a schiantare così, eppure non c’è altra spiegazione all’infuori dell’errore umano. O almeno non c’era finora, quando prende corpo l’ipotesi dell’attentato guardando ai dati del tempo con occhi nuovi e attraverso le lenti di moderne tecnologie che permettono calcoli matematici avanzati.

Quel 5 maggio del ’72 non era di per sé un venerdì normale. Come nel resto d’Italia, molti dei 108 passeggeri del Dc8 – insieme a sette componenti dell’equipaggio – stavano tornando a casa, a Palermo, per votare. Domenica e lunedì ci sarebbero state le elezioni politiche: le prime anticipate della Repubblica Italiana, in un clima da inizio degli Anni di piombo. La sera di quel venerdì, quasi a fine volo e senza un filo di perturbazione, lo schianto. A ripercorrerne le cause per stilare una perizia tecnica, oggi pubblicata da una casa editrice inglese fondata da ex docenti dell’università di Cambridge, è stato Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’Università di Palermo. E per lui non ci sono dubbi: l’incidente è Alitalia dovuto a uno squarcio su un’ala causato da un ordigno grande come un pacchetto di sigarette.

Per arrivarci il docente ha messo insieme non solo i fascicoli del processo e le fotografie scattate dalla polizia scientifica a Montagna Longa, ma anche i manuali tecnici dell’aeromobile. “Il tutto legato da un collante fatto di equazioni matematiche, calcoli e una simulazione dell’azione dei fluidi”, spiega. Nello specifico, il carburante contenuto nel serbatoio del Dc8. La prima stranezza venuta fuori rimanda al malfunzionamento della scatola nera: “Il dispositivo di registrazione deve essere stato manomesso durante una fase di revisione avvenuta negli hangar di Fiumicino la sera del 30 aprile – racconta il professore – Dopo l’incidente, nei laboratori di Alitalia si accorsero che il nastro della scatola nera era tranciato e c’erano solo sette ore di volo a partire dal 1 maggio, giorno in cui è stato messo in funzione l’aereo. Ma una scatola nera non funzionante non poteva sfuggire ai dispositivi di bordo, eppure nessuno dei diversi piloti che si sono alternati per quattro giorni fino al disastro segnalò alcuna anomalia. Per la quale, secondo il manuale, non si sarebbe neanche potuto volare”.

Questo passaggio si collega poi all’analisi fluidodinamica legata alla combustione del velivolo. Finora si è sempre pensato che l’aereo abbia preso fuoco con lo schianto, ma la ricerca del docente anticipa il momento delle fiamme che avrebbero quindi una diversa spiegazione. “Nella zona di impatto dovremmo ritrovare l’energia che il combustibile incendiato ha prodotto – spiega Marretta – A Montagna Longa, come si vede dalle foto a colori, tutto questo non c’è e si vede addirittura l’erba verde, motivo per cui tutta l’energia si è prodotta altrove e prima. C’è stata una forte deflagrazione, di cui è stato possibile calcolare le modalità di innesco della fiamma e come si è propagata – continua Marretta – Secondo i calcoli, tutto è legato a una carica detonante avvenuta prima dell’impatto”. La spiegazione è che l’aereo possa avere perso il carico di carburante già in volo, dopo una detonazione dovuta a una micro carica sull’ala destra del velivolo. Tesi già inviata in procura per valutare una possibile riapertura del caso, ma al momento tutto tace: “Sarei stupito se non venisse presa in considerazione – commenta il professore – Se l’esame del Dna, che è pur sempre costituito da calcoli, viene considerato una prova certa per condannare un’omicida all’ergastolo, non c’è motivo per cui questi di calcoli non debbano essere sufficienti a indagare su un’altra pista”.

Finora mai presa in considerazione. E che porterebbe a una domanda finale: perché sabotare il volo AZ112? Negli anni, ci si è spesso concentrati sulla lista dei passeggeri, alcuni illustri. C’era Ignazio Alcamo, allora presidente del tribunale di Palermo a cui era toccato, poco prima, decidere le sorti della moglie del boss Totò Riina. E c’era Angela Fais, cronista de L’Ora di Palermo, quotidiano legato a doppio filo al Pci. Nomi suggestivi che, però, non hanno mai convinto davvero come possibile movente. A indicare una strada, inaspettatamente, è stato qualche anno dopo lo schianto l’allora vice questore di Trapani, Giuseppe Peri. “In una corposa relazione sui sequestri di persona infila due paginette sul disastro di Montagna Longa che, all’apparenza, non c’entravano nulla – racconta Francesco Terracina, giornalista dell’agenzia di stampa Ansa e autore del volume L’ultimo volo per Punta Raisi. Sciagura o strage? – E invece probabilmente Peri aveva capito qualcosa, indagando sulla comunione d’intenti tra mafia e terrorismo nero”. Un tema diventato poi cruciale per quegli anni, in cui “l’Italia viveva un clima di profonda paura – conclude Terracina – Se così fosse, non importa che la bomba di Montagna Longa non sia mai stata rivendicata: rientrerebbe in quelle che, col senno di poi, avremmo definito strategia della tensione”.

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