La Storia è permeata da un controsenso. Tende all’immortalità, ma è continuamente soggetta a revisioni. Soprattutto per quanto riguarda lo sport. Perché l’agonismo ha una dimensione ciclica. Per stabilire un record bisogna infrangerne un altro. Per salutare un nuovo re bisogna defenestrare quello precedente. Ogni dominio è un’illusione momentanea. La sua instaurazione è la premessa necessaria al suo rovesciamento. La fine è la certezza. Il quando è l’unica variabile ammessa. Più la tirannia del vincitore è lunga e più genera negli avversari paure dai contorni sfumati eppure così riconoscibili. Qualcuno le chiama maledizioni, altri tradizioni negative. Tormenti che si sedimentano con il tempo, fino a diventare muri impossibili da scavalcare. Parole astratte ma che nello sport hanno un significato concretissimo. Perché evocano demoni, generano timori, portano all’autoaffermazione dei propri limiti.

Il 2021 è stato l’anno che ha messo l’Italia al centro del mondo. Almeno nello sport. Un tabellone del Risiko che si è colorato interamente d’azzurro, con gli altri costretti a guardare, a battere le mani, a complimentarsi, a sfilarsi frettolosamente dal collo la medaglia d’argento. Un anno esagerato, dove gli atleti azzurri hanno vestito i panni di un Re Mida impazzito, pronto a trasformare in oro, anzi, in medaglia d’oro, tutto ciò che toccava. Mai come in questi mesi i risultati dello sport italiano si sono avvicinati all’idea dei trascendenza. Perché mai come in questi mesi è riuscito a spingersi più in là. Oltre i propri limiti, le proprie paure, la propria storia. Oltre addirittura il buon senso che diventa pronostico.

Questo 2021 è stato l’anno in cui l’Italia è riuscita a riscrivere il concetto del più forte, a relativizzarlo all’estremo. Perché se la storia avesse fatto il suo corso, se tutto fosse andato secondo previsione, a vincere l’Europeo sarebbe stata la Francia, al massimo la Spagna (non l’Inghilterra perché a furia di ripetere ossessivamente quel Coming Home, la maledizione se l’è autoprodotta). Invece a trionfare non è stata la squadra più forte, ma la più resiliente, quella che si è adattata meglio alle difficolta, quella in cui il gruppo si è compattato fino a supplire l’assenza di un centravanti di livello internazionale, quella i cui trascinatori sono rimasti impigliati in un sortilegio, che qualche tempo dopo hanno sbagliato il rigore della qualificazione ai Mondiali o che hanno iniziato a trattare un contratto faraonico per autoconfinarsi alla periferia del calcio. A soli trent’anni. Se le maledizioni non esistessero solo per essere infrante Vialli e Mancini non avrebbero vinto a Wembley, lo stadio dove ventinove anni prima la loro Sampdoria era stata travolta dal treno della storia, battuta in finale di Coppa dei campioni dal Barcellona e condannata a restare leggenda senza potersi sublimare in favola.

Così come non sarebbe esistito il gambaletto di Gimbo Tamberi, quello che gli aveva impedito di conquistare una medaglia certa a Rio 2016 e che a Tokyo l’ha osservato tutto il tempo dalla pista, l’ha guardato saltare al di sopra del dolore e delle proprie paure. Sempre più su, fino a conquistare un oro che alla vigilia assomigliava più a una speranza che a una possibilità. Lo ha visto scuotersi per una per una gioia impossibile da contenere e poi voltarsi sulla pista di atletica giusto in tempo per assister all’arrivo di Marcell Jacobs, l’uomo che ha regalato all’Italia il sogno sportivo più spinto, più indicibile, quasi pornografio: la vittoria nei cento metri piani, poi bissata nella 4×100 insieme a Filippo Tortu, Lorenzo Patta e Fausto Desalu.

Se gli errori non fossero fatti per diventare insegnamento non ci sarebbe stata la folle parabola del nostro volley, flop alle Olimpiadi e dominatore poco dopo all’Europeo, con le azzurre trascinate al titolo da Paola Egonu e con gli azzurri capaci di andare oltre il ricambio generazionale e aggiudicarsi il titolo continentale. Ma questo 2021 ha insegnato che le frasi da cioccolatino a volte hanno ragione, che i propri limiti si formano prima nella testa che nel corpo. Se così non fosse non si potrebbe spiegare l’impresa di Gregorio Paltrinieri, fiaccato dalla mononucleosi ma comunque capace di vincere un argento olimpico negli 800 stile libero e un bronzo nella 10 km. Così come non sarebbe comprensibile il podio azzurro intenso con la Sabatini, la Caironi e la Contrafatto a dominare i 100 metri nelle Paralimpiadi, o l’oro nel fioretto di Bebe Vio.

Senza dimenticare l’ostinazione di Filippo Ganna, Simone Consonni, Francesco Lamon e Jonathan Milan, vincitori dell’oro olimpico nell’inseguimento a squadre di un Paese che può contare su un solo velodromo. O di Sonny Colbrelli, che a ottobre è diventato il primo italiano a vincere la Parigi-Roubaix nel nuovo millennio (l’ultimo era stato Andrea Tafi nel 1999), di Vanessa Ferrari che alla sua quarta apparizione ai Giochi ha conquistato l’argento nel corpo libero e di Matteo Berrettini, primo italiano a raggiungere la finale di Wimbledon. Oggi per lo sport tricolore si chiude un anno d’oro, ma non per questo irripetibile. D’altra parte i record esistono proprio per essere infranti.

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