Peccato che non sia riuscito a vedere il nostro mondo piegarsi all’improvviso alla pandemia, alle varianti e alle risse con i negazionisti: altrimenti avrebbe saputo suggerirci qualche spiegazione illuminante John Urry (Londra, 1946 – Lancaster, 2016), che è stato un sociologo di notevole rilievo. Autore prolifico, che ha pubblicato una ventina di saggi, Urry è stato giustamente considerato una sorta di profeta critico del disordine neocapitalista, del mondo del turismo di massa e infine degli effetti perversi della globalizzazione, cui ha dedicato uno dei suoi ultimi lavori, “Offshoring”.

Punto di riferimento anche per i più eminenti colleghi, in primis Zygmunt Baumann, nel 2010 Urry ha pubblicato il suo libro più celebre, che in italiano s’intitola Il paradigma delle mobilità. Diciamo pure che è una delle migliori fotografie del mondo occidentale ricco alla fine degli anni Dieci del Terzo Millennio. Rileggendo questo saggio di ieri che sembra così fuori tempo, si può invece capire qualcosa di quel che sta capitando nelle pieghe della pandemia.

Provo a riassumerlo per bene, fin dalla premessa, che è semplicissima e insiste su quanto sia ormai incontrovertibile che la stessa vita sociale si formi in movimento, cioè che non si possa più ricondurla a luoghi precisi, a piccole comunità in cui s’organizza. E questo non solo perché le persone viaggiano tantissimo, per lavoro, per piacere, per avere una vita familiare, per emigrare, per scappare: c’è anche ormai un continuo e spropositato movimento materiale di cose, e tutti i giorni si muovono miliardi di merci. Che siano cibi, abiti o carabattole, prendono aerei, salgono sui treni, sui camion, sulle auto, viaggiano per mare, valicano frontiere, albergano nei magazzini, e passano da una mano all’altra, in tante mani.

Poi, bisogna ancora considerare almeno altri tre tipi di viaggio, oltre a quelli delle persone fisiche e delle cose materiali: prima di tutto, c’è il viaggio attraverso le immagini, che ogni giorno bombardano gli uomini da tutte le parti. Vanno poi considerati i viaggi virtuali, che si svolgono spesso in tempo reale: per lavoro o per piacere, ogni giorno per ore ci sono persone che si danno appuntamento senza nemmeno muoversi, da quasi ovunque a quasi ovunque in tutto il pianeta, ovvero vedendosi e parlandosi davanti agli schermi.

Così alla fine, è la constatazione di Urry, tutti sono sempre dentro la dimensione del viaggio attraverso la comunicazione, messaggi di testo e di immagini, foto e video vengono scambiati in continuazione. Ora, tutti questi altri modi di viaggiare sono perlomeno falsanti, perché il mondo delle immagini è pur sempre costruito. Per comprendere perfettamente questa costruzione basta guardare al prototipo originale del mondo che abbiamo visto poi dominare gli schermi, il prototipo del cinema hollywoodiano, che si basava a propria volta su un’altra idea rappresentata del mondo, che era stata costruita pochi anni prima nel fortunatissimo circo Barnum: e poi anche quella chissà da quali idee da letteratura esotica popolare era ispirata.

Così, da una derivazione all’altra, si era già arrivati da decenni, per esempio, alla banalizzazione diffusa delle facciate delle località turistiche, ricostruite attraverso azioni ripetute di marketing, per confermare l’idea più consumata che muove già in partenza chi va a visitarle. Ed è solo una delle perversioni di quello che altre volte abbiamo chiamato distrut-turismo.

Insomma, per tornare alla tesi di Urry, tutti questi viaggi veri e presunti, falsi e chiacchierati, s’intrecciano e si sviluppano, moltiplicandosi e generando altri nuovi viaggi, quando non addirittura dei veri e propri nuovi luoghi, che siano isole di casinò o nuvolette d’idee e di segni; così alla fine ogni uomo che si muove plasma addirittura una propria nuova personalità dinamica, in movimento appunto, come un cantiere perennemente aperto. Viviamo così le nostre ‘vite mobili’ (il titolo originale del libro era Mobile lives, e Urry l’ha scritto in collaborazione con il sociologo australiano Anthony Elliott).

Ecco poi che quando in questo mondo ormai dominato dal paradigma della mobilità, fa irruzione una pandemia per contenere la quale sarebbe necessaria una sorta d’immobilità mondiale, forse addirittura una regressione pressoché totale della vita sociale così come la conosciamo da secoli, la risposta automatica di una negazione della realtà trova facilmente acchito. Non la danno all’unisono solo gli ideologi no-vax, i replicanti delle teorie del complotto, o altresì le vittime di manie di persecuzione così seducenti per gli egocentrici, ma proprio tutti noi che non riusciamo ad accettare l’idea di non poter più vivere e consumare come nel mondo di prima. Tanto la variante Omicron arrivata dal Sudafrica non è certo già l’Omega del Covid-19, e i conti con il paradigma di Urry abbiamo appena cominciato a farli.

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