Coca Cola contro Coca Pola. Si potrebbe sintetizzare così la battaglia che sta contrapponendo un gigante multinazionale e una piccola impresa indigena della Colombia. Una disputa legata alla somiglianza lessicale tra i prodotti commercializzati: la celebre bibita analcolica industriale da una parte, una birra e altri prodotti derivanti dalle foglie di coca dall’altra.

Alcune settimane fa uno studio legale con sede a Bogotà, capitale della Colombia, ha inviato una lettera per conto della multinazionale Coca Cola alla Tierra de Indio, distributrice della piccola società comunitaria indigena Coca Nasa, basata nel dipartimento del Cauca, ovest della Colombia. Un’intimazione, letteralmente, affinché smettesse di utilizzare il nome Coca Pola per la sua birra. Un nome che richiama la coca, pianta dai molteplici usi da cui si produce anche la cocaina – la Colombia è ampiamente il primo paese produttore al mondo, seguito da Perù e Bolivia – ma anche la birra, “pola” in Colombia.

Ma non solo: nella lettera inviata dallo studio Brigard Castro, resa pubblica da Fabiola Piñacué, leader indigena della comunità Nasa e fondatrice della piccola impresa finita nell’occhio del ciclone, si chiede di astenersi definitivamente dall’utilizzo di qualsiasi altro termine che possa confondersi con Coca Cola. Pena, un’azione legale per uso improprio del marchio. Che, secondo i legali che curano gli interessi del colosso statunitense in terra colombiana, costituisce anche concorrenza sleale. Con il rischio, sempre secondo i legali di The Coca-Cola Company, di generare “confusione” tra i consumatori.

Timori che i piccoli imprenditori indigeni rispediscono nettamente al mittente, sostenendo di richiamarsi correttamente alla pianta, da cui (loro sì) fanno derivare i loro prodotti. Pianta strettamente connessa al territorio della comunità Nasa, che rivendica il diritto per i popoli indigeni di non farsi soppiantare anche lessicalmente dall’impero multinazionale probabilmente più famoso del mondo. “Resisteremo”, è la posizione di Fabiola Piñacué, che dalla metà degli anni ’90, ancora studentessa di Scienze politiche, cominciò a tostare le foglie della pianta per produrre infusi da vendere ai suoi colleghi studenti universitari. “Andremo fino in fondo, non li temiamo”, ribadisce David Curtidor, legale di Coca Nasa.

L’azienda, fondata circa 25 anni fa con l’approvazione come progetto comunitario, oggi dà lavoro a una ventina di persone, producendo bevande, alimenti e medicinali a base di coca, in modo legale. Con un fatturato di circa 40mila dollari annui. Oltre alla birra, tra gli altri, Coca Nasa commercializza la bevanda energetica Coca Sek, il brandy Wallinde, il mix Coca Libre e il liquore Coca Ron. Prodotti basati su un’economia alternativa che cerca di smontare l’equazione coca=cocaina attraverso la valorizzazione delle risorse naturali del proprio territorio.

Che il colosso fondato ad Atlanta nel 1886, pur ispiratosi alla pianta tradizionale indigena, intende depotenziare. Ma non è la prima volta: già nel 2007, a causa della bevanda Coca Sek, la multinazionale a stelle e strisce agì legalmente contro Coca Nasa, chiedendone il ritiro dal mercato. Come andò a finire? Davide sconfisse Golia. È quello che dalle parti della comunità Nasa si spera possa ripetersi ora.

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