Nessun maggiore coinvolgimento del Parlamento. Sulla legge di Bilancio il governo Draghi non è stato granché attento alle prerogative di Camera e Senato. Così il testo della manovra sarà trasmesso al Senato nei prossimi giorni con un ritardo di oltre tre settimane sulla tabella di marcia, in linea (giorno più giorno meno) con quanto avvenuto in passato. La scadenza era infatti fissata al 20 ottobre. Escluso un ritorno in consiglio dei ministri dopo la “lievitazione” del testo, ora si aspetta che il ddl venga incardinato in Parlamento. I tempi di discussione in Aula sono quindi molto stretti e può succedere – come già accaduto più volte negli ultimi anni – che alla Camera il governo decida di accelerare la discussione, blindare il testo e porre la fiducia per non dover passare da un’ulteriore facendo decadere ogni ulteriore discussione o emendamento e chiudere in tempo per fine dicembre. Insomma il rischio è che l’iter della legge di bilancio si trasformi in una sorta di “monocameralismo di fatto” perché, come dice a Ilfattoquotidiano.it il costituzionalista Michele Ainis, “in Italia le riforme si fanno senza dichiararle. Perché se vengono annunciate, finiscono impallinate. Ma se vengono attuate senza dichiararle, va tutto bene”. Certo, lo svilimento del lavoro parlamentare non inizia oggi. “È una prassi deteriore, come quella dei maxiemendamenti – spiega ancora Ainis – Questo indica sostanzialmente l’introduzione di un monocameralismo di fatto o anche un bicameralismo a corrente alternata”, spiega ancora Ainis. Cosa significa? “Una Camera istruisce, l’altra si limita a mettere un timbro”. E secondo il costituzionalista “la conseguenza è una maggiore opacità, perché il Parlamento è il luogo in cui i partiti ratificano le proprie decisioni con un dibattito pubblico. Oggi queste scelte si spostano all’interno dei Consigli dei ministri, in cui manca però il carattere della pubblicità. È una questione di trasparenza”.

Per giunta quest’anno la decisione della larghissima maggioranza a sostegno del governo Draghi è stata quella di incardinare l’intero pacchetto della sessione di bilancio al Senato. Provocando le proteste dell’opposizione: “Il governo teme le fibrillazioni nella maggioranza e ha preferito spostare tutto al Senato, dove riesce ad avere maggiore controllo, anche solo per una questione numerica. I senatori sono di meno e più facilmente controllabili”, dice a Ilfatttoquotidiano.it Raffaele Trano, deputato della componente L’Alternativa c’è, ex presidente della commissione Finanze a Montecitorio. E il parlamentare azzarda la sua previsione: “Va detto senza mezzi termini: siccome i provvedimenti passeranno di fatto solo al Senato, si potranno fare delle ‘porcate’, magari in piena notte come capita in casi del genere, su cui noi alla Camera non avremo nemmeno modo di tentare dei correttivi”. Eppure, secondo Ainis non tutto è frutto di un calcolo: “A volte i ‘delitti’ avvengono a caso, non sempre c’è un calcolo dietro. Anche perché il dibattito è più complessivo sul ruolo del Parlamento, come testimoniano anche le ultime manovre approvate”.

Ma perché l’assegnazione esclusiva al Senato è anomala? Una panoramica complessiva aiuta a capire. Per prassi, a fine anno, si varano due provvedimenti, il decreto fiscale, già in esame proprio a Palazzo Madama, e la manovra, ancora in attesa degli ultimi ritocchi a Palazzo Chigi. Il Dl fiscale, da un punto di vista procedurale, è considerato un testo propedeutico alla definizione della manovra, è “un allegato” che viene esaminato dalla commissione Finanze. Contiene le misure di natura fiscale, indica possibili tagli alle tasse o al contrario eventuali introduzione di imposte. Il decreto di quest’anno (ribattezzato fisco-lavoro), per esempio, include la proroga sulla rottamazione delle cartelle e gli interventi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, più una serie di altre norme. Misure che camminano di pari passo alla Legge di Bilancio. E qui c’è il nodo. Fino allo scorso anno, la prassi prevedeva che Montecitorio trattasse un testo (per esempio il dl fiscale) e Palazzo Madama l’altro (la manovra), con un successivo passaggio di consegne in versione “blindata” (cioè con passaggio con voto di fiducia e senza modifiche). Questo ha sempre significato che, non essendoci i tempi di confronto nell’altra Aula, si ci poteva limitare a “un commento” e procedere alla votazione senza modificare nemmeno una virgola del provvedimento; pena un ulteriore passaggio, la terza lettura, nell’altra Aula. E già questa era una forzatura: le opposizioni di turno (dal 2018 a oggi sono state di colore diverso) in questi anni hanno ribadito le anomalie, salendo sulle barricate.

L’esecutivo in carica ha semplificato tutto, assegnando tutto il compito ai senatori. Così alla Camera c’è chi mastica amaro. “Annuseremo solo i testi del decreto fiscale e della manovra, in commissione Bilancio. Potremo al massimo fornire un commento, senza alcuna possibilità di emendarli. Insomma, vedremo passare tutto sopra le nostre teste e non ci sarà la possibilità di fare alcun aggiustamento”, sottolinea Trano, che parla di “un’alterazione della democrazia” e di “un abuso compiuto dal governo, che ha di fatto spento il Parlamento.”.

Si pone, poi, un ulteriore problema: la rappresentanza territoriale viene ulteriormente svilita. Gli eletti nei collegi, a Montecitorio, non avranno modo di inserire nei testi le eventuali misure per le loro aree geografiche di riferimento. “C’è stata una scelta abbastanza chiara di voler limitare il dibattito”, osserva Marco Osnato, deputato di Fratelli d’Italia, che ravvede nella decisione del governo “una paura dell’assalto alla diligenza degli stessi partiti di maggioranza. È tutto tristemente chiaro”. Più dell’opposizione, quindi, spaventa la tensione della maggioranza.