Settantadue autisti del Programma alimentare dell’Onu (Pam) arrestati a Semera, 16 dipendenti delle Nazioni Unite e 17 missionari salesiani detenuti nella capitale: è solo l’ultimo allarmante segnale che giunge da Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, dove la guerra in corso da un anno esatto ha registrato negli ultimi giorni un brusco deterioramento. Un portavoce del governo etiope ha affermato che i dipendenti Onu sono stati trattenuti per la loro “partecipazione al terrore”, dopo che dal 2 novembre è in vigore lo stato di emergenza. Secondo un operatore umanitario sentito dall’Associated Press dietro garanzia di anonimato, tutti i membri dello staff Onu fermati sono tigrini, popolazione considerata dal governo come nemica e schierata al fianco delle forze ribelli che puntano a rovesciare l’esecutivo guidato dal premio Nobel per la Pace 2019 Abiy Ahmed Ali. Stando alle Nazioni Unite, non è stata fornita alcuna ragione per tali detenzioni, ma la comunità tigrina denuncia arresti diffusi attuati solo su base etnica.

Il governo etiope, dal canto suo, afferma di detenere persone sospettate di sostegno alle forze rivali del Tigray, classificate all’inizio dell’anno come gruppo terroristico. Già il mese scorso Addis Abeba aveva espulso 7 membri del personale Onu, accusandoli senza prove di aver gonfiato falsamente la portata della crisi. Gli sforzi diplomatici e le denunce internazionali per le espulsioni e per arresti che paiono motivati esclusivamente dall’appartenenza etnica non hanno per ora sortito alcun effetto: Washington, così come l’Unione Africana, spingono per un cessate il fuoco immediato. Il segretario generale dell’Onu per gli Affari Umanitari, Martin Griffiths, ha concluso da poco un viaggio di quattro giorni nel Paese, dove ha incontrato il primo ministro Ahmed e ha visitato le “autorità di fatto” del Tigray, puntando almeno a facilitare l’accesso degli operatori umanitari a milioni di persone vittime del conflitto.

LE RADICI DELLA CRISI – L’Etiopia era da anni indicata come un modello: un’economia in forte crescita, riforme atte a modernizzare il Paese, sede dell’Unione Africana, la migliore stabilità del Corno d’Africa. Ma è bastato un anno per precipitare in un incubo. Il suo premier, Abiy Ahmed, insignito del Nobel per aver ottenuto il riavvicinamento con l’Eritrea dopo decenni di guerra, il 4 novembre 2020 decideva una “azione lampo” dell’esercito in risposta a un attacco del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (Tplf) contro alcune basi militari. Il Tigray si era già distinto per atti di ribellione contro il governo centrale, culminati con la tenuta di elezioni senza l’autorizzazione di Addis Abeba. La guerra “lampo”, dopo un anno, ora rischia di trascinare l’intero paese nel caos e di minare alle fondamenta la sua credibilità. Ora il Tplf, coalizzato con altri otto gruppi fra cui l’Esercito di liberazione degli Oromo (Ola), minaccia direttamente la capitale federale Addis Abeba.

L’escalation di questi giorni è solo l’ultimo atto di un conflitto di vecchia data che ha visto la minoranza tigrina governare l’Etiopia con pugno di ferro per quasi tre decenni. I tigrini (6% su 115 milioni di abitanti, nel secondo paese più popoloso d’Africa) avevano dovuto rinunciare al potere dopo che, nel 2015, enormi manifestazioni di piazza avevano preteso un cambio di regime. Era così giunto al potere l’attuale premier Abiy Ahmed, esponente della maggioranza oromo fino ad allora oppressa, che rappresentava un simbolo di riscatto e speranza. Le sue prime mosse avevano ristabilito il multipartitismo e la libertà di stampa, liberando prigionieri politici e giungendo infine a firmare la pace con l’Eritrea.

Per la verità, ai Paesi vicini (la fragile Somalia in testa) già non sfuggivano le mire espansionistiche di un’Etiopia che puntava alla crescita economica e di prestigio, ma è stato solo nell’ultimo anno che l’immagine di Abiy Ahmed come riformatore illuminato ha definitivamente ceduto il posto a quella di un leader arroccato sulle sue posizioni e intestardito nella difesa a oltranza del suo esercito, anche quando commetteva crimini sulla popolazione tigrina: migliaia i morti, decine di migliaia gli sfollati, violenze e stupri, crimini di guerra testimoniati da diverse organizzazioni dei diritti umani e compiuti – va detto – da tutti gli attori in campo.

Il conflitto nel Tigray non è l’unico rischio imminente per la regione: la decisione ostinata di costruire la Grand Ethiopian Renaissance Dam, ovvero la mega diga sul fiume Nilo, senza prestare ascolto alle rimostranze di Sudan ed Egitto, i Paesi a valle le cui economie dipendono in larga parte dalla portata del grande fiume africano, ha enormemente aumentato gli attriti regionali ed è passata in secondo piano solo a causa del mortifero conflitto col Tigray.

Tigray che, invaso un anno fa, non è restato a guardare: i suoi leader, dopo essersi ritirati sulle montagne, si sono riorganizzati e ora – col probabile appoggio dei tanti nemici che si è fatto Abiy nella subregione – stanno puntando sulla capitale, con un rovesciamento delle posizioni di forza. Il premier ha chiamato i suoi concittadini alla rivolta contro il “nemico traditore del popolo”. E decine di migliaia di persone sono scese in piazza ad Addis Abeba e in altre città per sostenere il governo e protestare contro l’avanzata del Tplf.

In ogni caso, un risultato è certo: credibilità azzerata, investitori in fuga, diplomazie preoccupatissime sono solo i più evidenti risvolti del precipitare degli eventi, in un’escalation che non mina solo la grande Etiopia, ma tutta la regione e rischia di avere pesanti conseguenze per l’intero continente, le cui istituzioni hanno sede proprio a Addis Abeba. Tace per ora il tigrino più illustre, il capo dell’Oms Tedros Gebreyesus che mosse i primi passi politici proprio nel Tplf e fu ministro della sanità nel governo precedente, quando l’Etiopia era guidata con pugno di ferro da Meles Zenawi.

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