È l’immediato dopoguerra ed è la fine del biennio rosso. È un momento in cui ci si ritrova in mezzo a una crisi materiale e morale enorme. Miseria e abitudine alla violenza sono il tessuto dentro cui prendono forma gli eventi. La società è divisa, polarizzata e la politica, in un momento di cambiamento strutturale profondo che vede la nascita dei partiti di massa, si sta riarticolando con tutta la difficoltà di cogliere la domanda sociale, di riportarla sul piano pubblico in modo coerente. Fattore non scontato in generale, figuriamoci in un momento così complesso dove si mischiano le divisioni e le tensioni che attraversano la società con quelle che frammentano lo spazio politico, diviso tra vecchio, nuovo, correnti e visioni diverse di un futuro tutto da ricostruire.

È anche un momento di conflitto: il movimento di lavoratrici e lavoratori sta crescendo nello spazio politico e sindacale ma soprattutto all’interno del tessuto sociale. È appena passato un biennio di rivendicazione e lotta, non solo salariale, ma sempre più politica, mentre si inizia a pensare di “fare come in Russia”. Si sta creando però un doppio mito, o meglio un mito a due facce che solca dinamiche e sviluppi del conflitto: quello dell’immediatezza della rivoluzione, che da un lato presenta il volto dell’incalzante aspettativa rivoluzionaria e crea frizioni non indifferenti ma, dall’altro e soprattutto, riempie le bocche borghesi che gridano alla necessità di una reazione, di un argine preventivo.

Vengono in qualche modo forniti alla cittadinanza borghese gli argomenti per affermare che il bolscevismo si pone da sé al di fuori della nazione, per minacciare scioperi fiscali e per chiedere
l’intervento delle autorità. Il 23 marzo 1919 a Milano, in Piazza San Sepolcro, nasce il movimento dei Fasci di combattimento. Inizia a cambiare tutto con la stagione della mobilitazione delle squadre paramilitari fasciste e con la prima articolazione del movimento, che trova frequentemente grande appoggio nelle forze dell’ordine e in quelle militari.

A Livorno, ad esempio, il 31 luglio 1922, in occasione dello sciopero legalitario nazionale, arrivano pattuglie fasciste da tutta la Toscana. Tra il 31 luglio e il 3 agosto la città viene messa sotto sopra, con molti squadristi giunti dalla regione, che attraversano la città compiendo esecuzioni e vandalismi, fino a giungere a Piazza del Municipio. I fascisti prendono simbolicamente possesso del palazzo comunale semi-deserto e Dino Perrone Compagni, segretario regionale del Fascio, dichiara dal balcone che tutta la giunta deve dimettersi e abbandonare Livorno entro tre ore “in caso contrario vi impiccherò in piazza”. Inizia così una catena di auto scioglimenti che coinvolge la deputazione provinciale e numerosi consigli direttivi di sodalizi cittadini. Vengono assaltate e smantellate tutte le roccaforti del sovversivismo livornese: la Camera del lavoro, la Camera sindacale del lavoro, sedi socialiste e comuniste, gli esercizi privati di noti simpatizzanti della sinistra. Il 4 agosto per confermare e festeggiare la caduta dell’amministrazione il centro è percorso da una grossa manifestazione di tutte le destre cittadine, comprendenti esponenti del mondo industriale, del potere economico, nobili, monarchici, associazioni dei veterani di guerra, ribadendo il sostrato politico e sociale del fascismo livornese ma anche l’elemento di attrattività del potere al di là della militanza effettiva. Infatti, alla manifestazione partecipano circa 15mila persone, ma il numero di squadre livornesi qui presente supera di gran lunga la quantità di coloro che hanno attivamente partecipato alla conquista della città: a conti fatti si veste la camicia nera dell’ultim’ora. A Livorno, dopo la conquista squadrista della città alla repressione nelle strade segue quella nelle fabbriche e il 12 ottobre, dopo il fallimento delle trattative con la Fiom, la direzione del cantiere navale e il partito fascista raggiungono un accordo a Roma, segnando ancor più chiaramente un fitto intreccio di poteri economici e politici.

Il Partito nazionale fascista era nato circa un anno prima, il 9 novembre 1921, dopo lo scioglimento dei Fasci di combattimento. Cosa significa questo passaggio? Mussolini era ben conscio dell’ineluttabilità dello scontro di piazza ma anche della sua funzione temporanea e, ciononostante, fu probabilmente colto di sorpresa da tale esplosione di violenza squadrista, inaugurando presto lo stop and go sul tema della violenza – talvolta esaltandola, talvolta ridimensionandola – fino ad arrivare al patto di pacificazione con socialisti e Camera generale del lavoro il 2 agosto del 1921. Patto che però rimase speso un effimero insieme di firme su carta, visto quanto successe a Livorno.

Iniziavano a crearsi tensioni tra impulso squadrista e poteri costituiti, sempre più vicini al fascismo. In quel delicato passaggio Mussolini decise di compiere un voltafaccia rispetto al movimento originario, andando a giocare sul tavolo della grande politica. La nascita del Pnf fu una terapia choc per il movimento, che rappresentò l’abbandono delle logiche antipartitiche e anti-istituzionali. Fu un momento di svolta funzionale a gestire il consenso raccolto, formulando un programma che muovesse oltre l’antibolscevismo viscerale e le ambiguità del Diciannove, frutto di un’eterogeneità strutturale. Il movimento, infatti, era nato cominciando da un primo riferimento sindacalista, ma anche da nuclei agrari e di reazione padronale e filo-industriale e soprattutto da una presenza provinciale, diversificata e difficilmente collocabile all’interno di un’idea politica nazionale.

Il fascismo si era articolato nei ristretti spazi dei paesi e delle piccole città che iniziarono a essere presentati come incompatibili con un altro tipo di progettualità, maturata quando alcuni fascisti iniziarono a sentire vicina la vittoria e a lavorare per rendersi accettabili all’establishment: da un lato fu promosso un programma iperliberista, dall’altro Mussolini abbandonò la tendenza repubblicana e dichiarò la sua fede nelle società ben ordinate, fondando una rivista che si chiamava Gerarchia. Dopo essersi mantenuto all’interno di mitologie di sinistra fino al 1919, per poi spostarsi verso il centro nel 1921, Mussolini vira più compiutamente a destra nel 1922, inserendosi in un processo di congiuntura in cui tutto cambia, specialmente le fedeltà dei singoli gruppi di potere. Con questi ultimi inizia a interagire in profondità: una linea chiave del progressivo inserimento fascista nelle strutture di potere va di fatto ricercata nella tendenza mediatrice che fu necessario seguire. Una volta affermatisi politicamente e mediante strumenti coercitivi subentrò una necessità di normalizzazione che comportò un profondo inserimento all’interno delle strutture dello Stato, dopo essersi fatti Partito. Il rapporto gattopardiano (il tutto che cambia perché tutto resti com’è) che si mantenne costantemente con sistemi e gruppi in continuità con regimi precedenti, avrebbe reso il fascismo una macchina potente e pervasiva, le cui eredità continuano ad attraversare le istituzioni italiane.

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