Le autorità Usa non collaborano con l’Italia per inchieste legate alla diffamazione sul web, perchè lì quel reato non esiste. E quindi è inutile che le nostre autorità giudiziarie inoltrino richieste di rogatoria internazionale, perchè vengono tutte respinte. Per questa ragione – l’impossibilità di identificare gli autori di minacce telematiche – è stata archiviata a Belluno l’inchiesta che vedeva parte offesa Assia Belhadj, 37 anni, italo-algerina che vive a Longarone, dove fa la mediatrice culturale. Durante la campagna elettorale del settembre 2020 si era candidata con la lista “Il Veneto che vogliamo” (che appoggiava Arturo Lorenzoni della coalizione di centrosinistra) e aveva pubblicato una propria foto con il velo musulmano. A causa del suo abbigliamento era stata oggetto di pesanti insulti, che l’avevano indotta a presentare querela.

“Oggi mi sento “straniera” in tutti i sensi, una parola con cui mi hanno sempre etichettato e che ho sempre rifiutato”, ha dichiarato, delusa, apprendendo che il gip ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura. “Più di cento persone si sono permesse di offendermi, prendermi in giro, minacciarmi, deridere me e la mia religione, chiamare “straccio” il velo che porto, dirmi che mi devo curare, hanno associato la mia persona all’Isis, mi hanno dato della medievale. Eppure non possono essere processate perché non si riesce a risalire alla loro identità e alla data di pubblicazione dei post”.

La verità è che la Procura ha cercato di identificare almeno qualcuno dei leoni da tastiera che si sono accaniti contro di lei. Ma non ha potuto farlo perchè si è trovata di fronte ad un ostacolo insormontabile, le differenze tra l’ordinamento italiano e quello Usa in materia di diffamazione. “Come tutte le Procure italiane, anche noi abbiamo ricevuto una nota del Dipartimento di Giustizia, Ufficio degli affari internazionali, degli Stati Uniti d’America” spiega il procuratore di Belluno, Paolo Luca. “Era stata inviata nel 2016 al procuratore aggiunto di Roma, Angelantonio Racanelli. Con un oggetto preciso: “Richieste di assistenza giudiziaria in materia penale per il reato di diffamazione tramite profili Facebook”. Il Dipartimento spiegava chiaramente che non essendo quel tipo di reato previsto e punito negli Usa, non si può dar corso alle rogatorie sui dati custoditi dai provider”.

È questa la ragione che ha impedito di procedere contro chi aveva offeso Assia. Così scriveva Cristina Posa, funzionaria del Dipartimento di Giustizia americano: “Negli Stati Uniti la diffamazione non è reato, anzi le affermazioni contenute nei profili Facebook e ritenute diffamanti sono protette dal diritto di libertà di espressione ai sensi del Primo Emendamento della Costituzione. Da noi la libertà di espressione gode di un regime privilegiato e nessuno è perseguibile per l’esercizio di tale diritto, a prescindere da quanto possa essere sgradevole, offensivo e molesto il contenuto veicolato”. Visto che le richieste vengono puntualmente respinte, la lettera invitava a non “presentare rogatorie per evitare spreco di risorse che dovrebbero essere dedicate ad altri reati. Si tratta di rogatorie inutilizzabili a causa dei nostri ordinamenti costituzionali diversi”. C’è poi un secondo livello, ulteriore e anch’esso non superabile: “Neppure Facebook o altri gestori internet statunitensi rispondono a richieste per la fattispecie del reato di diffamazione”.

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