Case popolari, che passione. La sorniona campagna elettorale per le comunali di Milano del 3-4 ottobre si accende a pochi giorni dal voto. Su un solo tema, nella città con gli affitti alle stelle: le case popolari. Anche se nel Recovery Plan non ne è prevista nemmeno una e le politiche di sostegno all’affitto in Italia fanno acqua. Ma ora la città per ricchi e dei ricchi è contesa con il voto dei poveri, assoluti e relativi. Non si contano le dichiarazioni, prese di posizione, comizi senza folla improvvisati nelle “periferie” che le classi dirigenti visitano una volta ogni cinque anni. Sono 70mila le case popolari in citta fra gestione regionale Aler e comunale MM, che non bastano mai perché il disagio abitativo è fuori controllo: ogni lustro si scopre che ci sono migliaia di alloggi sfitti. Al 31 dicembre 2019 la “lista d’attesa” di Milano contava 25.192 famiglie richiedenti. L’anno dopo la metà. Miracolo economico? No. Semplicemente la legge regionale sui “servizi abitativi” voluta dal centrodestra a trazione Lega ha tagliato del 50% la graduatoria.

Le stesse norme hanno comportato un’impossibilità di assegnare le case sfitte o recuperate (dagli inquilini abusivi o dall’abbandono, circa 3mila case riqualificate in 5 anni dice il Comune di Milano con una spesa di 120 milioni di euro) a causa di un regolamento fallace e falcidiato dai tribunali per discriminazione verso gli stranieri e di un software che avrebbe dovuto automatizzare le procedure. E invece ha fatto la triste fine di vari programmi informatici partoriti da Palazzo Lombardia: ha fallito. La “rivoluzione digitale” per chiedere una casa popolare con lo spid e senza assistenza (sempre stabilito per legge), poco si concilia per ora con persone disabili, anziane, non italiane, che non hanno completato percorsi scolastici obbligatori e che vivono di stenti. Come è una parte importante della platea a cui bisognerebbe rispondere. La legge – varata nel 2016, sperimentata nel 2017 su quattro comuni dell’hinterland e infine diventata operativa nel 2018 – ora è da rifare daccapo al Pirellone. A nemmeno tre anni dalla sua entrata in vigore.

La sinistra, il canone concordato e lo scivolone su Bosconavigli – Di povertà abitativa si parla, quando il voto si avvicina, per portare casa preferenze alle urne e un posto come consigliere comunale a Palazzo Marino. “Milano mostra un deficit strutturale di edilizia pubblica e gli investimenti fatti sull’housing sociale sono importanti ma insufficienti” dice Elena Lattuada, capolista di “Milano Unita” sostenuta da Sinistra Italiana nella colazione per Beppe Sala sindaco. Il capogruppo del Pd a Palazzo Marino, Filippo Barberis, vicinissimo a Sala, ha annunciato che si batterà “per l’introduzione di incentivi ai privati per il prezzo calmierato degli affitti”. Nuove risorse sul canone concordato, quindi. Che funziona così: il privato fa un canone più basso del mercato. In cambio lo Stato concede uno dei migliori regimi fiscali d’Italia (cedolare secca al 10%), il Comune garantisce 18 mesi di affitti in caso di morosità, copre i lavori di ristrutturazione per qualche migliaio di euro e si pone come garante del contratto. Tutto bello. Ma non funziona. A Milano il canale concordato copre solo lo 0,6% dello stock. Si contano circa 1.600 contratti attivati in cinque anni. A Roma meglio (4%), per ragioni legate alle specificità dei mercati immobiliari: dove i canoni di mercato volano al rialzo, come sotto la Madonnina, la rendita immobiliare, piccola o grande che sia, non negozia. Barberis però è convinto di farcela e ha detto che si batterà per “giovani coppie, studenti, ragazzi che vogliono uscire dal nucleo famigliare. Lo dobbiamo loro, questa città ha sempre accolto”.

Ma in settimana il Pd ha fatto una figuraccia condividendo sui social, con un annuncio quasi da agenzia immobiliare, i render del nuovo Bosconavigli che una cordata di cinque imprenditori costruirà in Porta Genova su progetto dell’archistar Stefano Boeri. È il nuovo “bosco orizzontale”. In due ore di conferenza stampa nessuno ha parlato di soldi o pronunciato la parola “euro”. Si è parlato di ambiente e di botanica. A domanda sui prezzi, ecco la risposta di Marco Nolli, ingegnere che con la sua EdilLombarda guida la cordata imprenditoriale: per novanta appartamenti “investiamo 60 milioni di euro, i prezzi partiranno da 6.300-6.400 euro al metro quadrato, a salire”. Quel “a salire” è minaccioso. Il “bosco orizzontale” va verso il cielo (nei valori). “La città che sale” ha scritto l’Espresso citando Boccioni e il futurismo.

Parla il centrosinistra, parla la sinistra. Il candidato di Milano in Comune e Civica AmbitaLista Gabriele Antonio Mariani spinge proprio su casa e urbanistica per pescare i voti dei delusi da 10 anni del binomio Pisapia-Sala. “Milano costa troppo” dice. E quindi? Si batterà contro “affitti stellari, privatizzazione del pubblico che sono realtà per i milanesi che vivono all’ombra dello skyline luccicante”.

I costruttori e la retorica degli affitti inclusivi – Di prezzi e affitti parlano addirittura i costruttori stessi: i più “furbi” fanno orecchie da mercante oppure esercizi di stile conditi con le parole “green e resilienza nei quartieri”. Formule magiche che hanno oggi un bel vantaggio: una barcata di soldi nel Recovery Plan. Il loro leader morale, Manfredi Catella, ha detto “che i capitali non sono un problema in questa fase storica”. Mister Porta Nuova teorizza l’elitarismo di alcuni quartieri come modello di sviluppo di una città e di una comunità. La scuola di pensiero “opposta” (non troppo) è quella di Mario Abbadessa, numero uno di Hines in Italia. Che già dal 2018-2019 va in giro dicendo, senza mai fornire cifre, che “il futuro è degli affitti bassi” anche per il capitale privato. Il cosiddetto “capitale paziente”. Parlano le cooperative abitative: “Basta con la narrazione di Milano”, dice Alessandro Maggioni, a capo di CCL (coop legata alle Acli). Secondo lui anche le parole e il sentiment abusati fanno volare la rendita fondiaria e immobiliare gonfiando aspettative che diventano realtà, alimentandosi, ed escludendo i ceti marginali. Mentre la retorica “l’affitto come inclusività” per Maggioni è falsa se non si stabilisce prima un’asticella. Per lui “100 euro al mq all’anno” che significa 400 euro al mese per 50 mq (più le spese condominiali). L’housing sociale a Milano viaggia intorno ai 120-150 euro al metro, il 50% in più. Alcuni singoli alloggi sono inferiori ai 100 euro, ma non è una strategia complessiva. Nomisma ha stimato che 156mila nuclei non poveri spendono più del 30-40% dei propri redditi solo per la casa e bisognerebbe arrivare a 70 euro per rispondere al fabbisogno.

La Lega attacca, ma Aler è della Regione – Parla la destra, un bel po’ a disagio in apparenza rispetto al voto di Milano. La Lega attacca. “Sala vuole una città per ricchi dimenticando ancora una volta i bisogni delle famiglie”, dice Francesco Migliarese, commercialista candidato con il Carroccio al consiglio comunale. “Milano radical chic che si occupa solo di Ius Soli, Ddl Zan e galleria Vittorio Emanuele”, tuona Matteo Salvini incontrando gli inquilini delle case Aler. Via Bellerio ha capito che le sue chance, in particolare di mantenere il primato su Fratelli d’Italia, passano dalle periferie. Alle europee 2019 Giorgia Meloni e compagni hanno triplicato i propri voti in alcuni importanti complessi popolari, per esempio a Bruzzano. Il Capitano opportunisticamente gioca sulla scarsa memoria degli elettori: se le case popolari non ci sono o sono in pessime condizioni, è sempre colpa del sindaco: Beppe Sala. Il leader dimentica che Aler è materia della “sua” amministrazione lombarda. MM invece va meglio sulla gestione di case e inquilini ma ha un vantaggio competitivo: ha le case in gestione solo dal 2014 e “buchi” di morosità, debiti o situazioni socialmente incancrenite più recenti e quindi meno gravi.

Sul resto non va tanto meglio, nonostante la retorica. A Ferragosto in via Rilke, quartiere Ponte Lambro, ha preso fuoco il piano di un condominio popolare a gestione comunale. Non ne ha parlato nessuno al contrario dell’incendio devastante alla Torre dei Mori di via Antonini che ha invece visto la città correre in una gara di solidarietà fra donazioni su Iban agli inquilini, moratorie sui prestiti delle grandi banche meneghine, e gli assessori Maran (Pd) e quello alla Casa, Gabriele Rabaiotti (Lista Sala) che in meno di una settimana hanno trovato una soluzione. Di banche e fondazioni bancarie della città – come Intesa Sanpaolo o la Popolare di Milano, la Cariplo, spina dorsale della bontà milanese – pronte ad offrirsi di dare una mano in qualche modo, nemmeno l’ombra. Anche il fuoco brucia di più in base a differenze di classe e di quartiere.

Gli abitanti che calano e il leit motiv dei 15 minuti – Del resto Milano è strana. Il paradosso della ”città attrattiva” è che dal Covid in poi continua a perdere abitanti anche se pare un tabù sottolinearlo. Nel 2020 come nel 2021. Secondo l’Istat ora è andato in segno negativo anche il saldo migratorio. Ad aprile 2021 si sono iscritti all’anagrafe comunale di Milano 3.557 persone ma si sono cancellati (per trasferimento di residenza) 4.087 ex milanesi. Maggio: 3.168 iscritti e 3.822 cancellati. Dati demografici che “meriterebbero un approfondimento in questa campagna elettorale”, dice Francesco Gastaldi, professore associato di Urbanistica a Venezia, che sta svolgendo un lavoro di mappatura su varie città italiane. Non se ne parla. La città si avvicina sinistramente a quota 1 milione e 395mila abitanti dopo aver sorpassato quota 1,4 milioni nel 2019. Si è aperta una breccia nella diga dell'”unica città europea d’Italia”. Crescono invece alcuni grossi comuni dell’hinterland. Sono le stesse persone che si spostano a caccia di prezzi più bassi? Non si può sapere senza violare la privacy ma il dubbio viene. L’altro leit motiv della campagna elettorale è la “città a 15 minuti”, cooptata dal modello Parigi. Rimane una domanda: se le persone più povere se ne vanno non c’è il rischio siano solo 15 minuti di celebrità?

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