Dopo l’endorsement incondizionato al governo Draghi, il numero uno di Confindustria Carlo Bonomi ha detto di essere preoccupato. Perché “il cronoprogramma delle riforme rischia di slittare” e “i ritardi mettono a rischio le prossime tranche di fondi europei”. L’ultimo scricchiolio risale a due giorni fa, quando Il Sole 24 Ore ha titolato in prima pagina sull’allarme dei commissari straordinari alle opere del Recovery plan per la mancata nomina degli organi straordinari che dovrebbero velocizzare le procedure e nella dotazione di risorse e strumenti tecnici. Il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini si è affrettato a negare. Ma è un fatto che, dopo la breve pausa estiva, Palazzo Chigi si è concentrato sul nodo Green pass e ha lasciato che i dossier più divisivi – dal fisco alla concorrenza fino al tormentato provvedimento sulle delocalizzazioni – si accumulassero sulle scrivanie dei ministri in attesa di scavallare le elezioni amministrative. E ora, con la Nota di aggiornamento al Def e la legge di Bilancio alle porte, i tempi per superare le resistenze corporative e rispettare le condizioni concordate con la Commissione europea sono ormai strettissimi. Non è un caso se durante il cdm di giovedì, come ha anticipato Draghi, “presenteremo il quadro del monitoraggio degli interventi del Pnrr previsti per l’ultimo trimestre del 2021″.

Di qui a fine anno 44 traguardi e 2 obiettivi da raggiungere – Dopo aver incassato in agosto il primo anticipo, di qui a fine anno come ha ricostruito l’Osservatorio sui conti pubblici dell’università Cattolica il governo deve raggiungere 44 “traguardi” e 2 “obiettivi” tra quelli dettagliati nelle oltre 2.400 pagine di schede progetto inviate a Bruxelles. Compresi 24 traguardi legati alle riforme, che rappresentano evidentemente la sfida maggiore. Soprattutto perché alcuni appuntamenti sono già stati mancati: fisco e concorrenza a parte, sulla legge di revisione delle norme anticorruzione prevista per giugno non ci sono notizie. Le riforme degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive, da coordinare con i correttivi sull’impianto del reddito di cittadinanza e gli interventi sulle pensioni post quota 100? Per ora solo bozze che non affrontano i problemi di fondo.

Delega fiscale ostaggio dei veti del centrodestra – Se sul processo penale e civile dopo molti scossoni la strada parlamentare a colpi di voti di fiducia sembra in discesa (ma resta l’incognita dei decreti attuativi), la delega fiscale che era attesa entro il 31 luglio è ostaggio dei veti di Lega e Forza Italia sulla revisione del catasto. Così, in questo come in molti altri casi, per sbloccare la situazione si attende un intervento diretto di Draghi. Che nel suo discorso di insediamento al Senato, prendendo in prestito le parole dell’amico e consigliere Francesco Giavazzi, aveva definito l’intervento per ridurre gradualmente il carico fiscale un “passaggio decisivo” ma aveva anche spiegato la necessità di affidare la riforma a una commissione di esperti di cui poi si sono perse le tracce. La stella polare sarà un documento approvato dalle Camere che per non scontentare nessuno evita accuratamente di citare l’ipotesi di aggiornare i valori catastali e aumentare le tasse sui grandi patrimoni o sulle successioni (anzi auspica che l’aliquota sui redditi da capitale venga ridotta) e “salva” la mini flat tax cara alla Lega. Ma, se non si riequilibra il carico, le risorse a disposizione per ridurre l’imposizione al ceto medio e l’Irap si fermeranno ai 3 miliardi concessi dal Tesoro.

Dossier concorrenza rinviato a dopo le amministrative – Altrettanto intricato il capitolo concorrenza. Basti dire che la legge sulle liberalizzazioni in teoria dovrebbe essere annuale, ma l’ultima è stata approvata nel 2017 dopo tre anni dal varo in consiglio dei ministri. Non prima di aver imbarcato una serie di favori – anche sotto forma di rinvii – alle varie lobby minacciate dal provvedimento che dovrebbe aprire il mercato: dalle assicurazioni alle compagnie telefoniche passando per tassisti, notai e farmacisti. Le bozze scritte dal governo Draghi che sono circolate in luglio non facevano ben sperare: per esempio non contenevano alcun riferimento alle concessioni balneari per la cui proroga fino al 2033 l’Italia è sotto procedura di infrazione Ue. Quando poi si è ipotizzato di affrontare anche quel capitolo, come “chiede l’Europa”, la levata di scudi è stata immediata. Idem sulle anticipazioni che ventilavano il ritorno allo Stato delle concessioni idroelettriche attribuite nel 2019 alle Regioni, la riforma dei servizi pubblici locali troppo spesso gestiti in house e l’innalzamento dei limiti di emissione elettromagnetica per il 5G: temi caldi per gli amministratori locali, in particolare quelli della Lega. Meglio rinviare la legge a dopo il voto.

Entro fine anno tutte le norme attuative sugli appalti – Le 69 pagine di tabelle allegate al decreto con cui in agosto il Tesoro ha ripartito tra le amministrazioni i 191,5 miliardi a valere sul Next Generation Eu evidenziano che entro fine anno vanno mandati in porto, solo per fare alcuni esempi, la riforma delle politiche attive e quelle dell’insolvenza (il cui cuore però è già stato rinviato al 2022), delle classi di laurea e degli alloggi per studenti, le disposizioni per la revisione della spesa pubblica e “tutte le leggi, i regolamenti e i provvedimenti attuativi (anche di diritto derivato) per il sistema degli appalti pubblici“. Quest’ultima, da sola, è un’impresa da far tremare i polsi: basti dire che a gennaio 2021, prima dell’insediamento di Draghi a Chigi, mancava ancora all’appello metà dei decreti attuativi previsti dal nuovo Codice varato cinque anni prima da Renzi. Compreso quello, cruciale, sulla qualificazione delle stazioni appaltanti, che non a caso è stato rispolverato nella delega sulla materia approvata dal cdm il 30 giugno. Per rispettare l’obiettivo bisogna correre, superando le resistenze degli enti locali poco propensi a perdere competenze sulle gare e sui bandi con cui verranno assegnate risorse importanti.

I ritardi sulle grandi opere – Tutto si tiene e la mancanza del decreto che dovrà accorpare le stazioni appaltanti riducendone il numero e aumentandone le competenze si riflette anche sulle grandi opere. “Non ho ricevuto alcuna lettera dei commissari preoccupati”, ha reagito il ministro Giovannini dopo le indiscrezioni del Sole sul malcontento per la stasi sui grandi progetti infrastrutturali che scontano la mancata nomina dei membri della Commissione speciale per la valutazione di impatto ambientale e del comitato speciale del Consiglio lavori pubblici. Ma, ha ricordato in un’intervista a La Stampa, “questi comitati devono esprimersi sui piani di fattibilità tecnico-economica che spetta alle stazioni appaltanti preparare e che non sono ancora pronti”. Appunto.

Non c’è la quadra sulle delocalizzazioni – Non c’entra invece con il Pnrr, ma è la dimostrazione plastica delle difficoltà di procedere tenendo insieme una maggioranza a dir poco eterogenea, la parabola del decreto delocalizzazioni tornato di attualità dopo la sentenza del Tribunale del lavoro su Gkn. In agosto le bozze scritte dal ministro del Lavoro Andrea Orlando (Lega) e dalla viceministra dello Sviluppo Alessandra Todde (M5s), che prevedevano l’obbligo di mettere a punto un piano che limiti le ricadute occupazionali ed economiche in caso di licenziamento collettivo, sono state impallinate da Confindustria e hanno di conseguenza trovato la strada sbarrata da parte del titolare del Mise Giancarlo Giorgetti. Depotenziarle eliminando l’ipotesi di una sanzione per le aziende che se ne vanno dopo aver incassato soldi pubblici non è bastato: l’uomo-macchina della Lega vuol ribaltare l’impianto, puntando su incentivi per chi riassorbe lavoratori coinvolti in casi di crisi. Una serie di riunioni a Chigi con Giavazzi e al ministero del Lavoro non è bastata per trovare la famosa “sintesi politica”, nemmeno sull’ipotesi di limitarsi a rafforzare la procedura da seguire in caso di chiusura. Chissà se il tema entrerà nel “patto economico, produttivo, sociale” auspicato da Draghi all’assemblea di Confindustria.

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