“Bisogna trovare il modo per distribuire i fondi del Next Generation Eu alle Regioni solo a condizione che raggiungano precisi obiettivi in termini di qualificazione dei lavoratori e inserimento nel mercato. In caso contrario le assunzioni nei centri per l’impiego saranno inutili. E lo Stato, non avendo centrato i target, non riceverà i soldi dalla Ue e dovrà anche coprire il buco”. Andrea Garnero, economista del lavoro, date le premesse non è molto ottimista sulle probabilità di successo del piano del governo per potenziare una volta per tutte le politiche attive del lavoro facendo leva sugli oltre 6 miliardi previsti dal Recovery plan. Piano che dovrebbe offrire opportunità di reinserimento anche ai beneficiari del reddito di cittadinanza. “In alcune aree del Paese il sistema delle politiche attive di fatto è inesistente, senza che nessuno si sia interrogato sulle responsabilità. Anche nello scenario migliore possibile si potrà rimediare solo nel lungo periodo”, avverte l’esperto che da qualche mese guida una commissione di studio sul lavoro povero istituita dal ministero. “Nel frattempo vanno sicuramente coinvolte le agenzie per il lavoro private, ma senza pensare che sia una panacea: dove non funziona il pubblico spesso non c’è nemmeno il privato“.

Il piano di Andrea Orlando ruota intorno al programma “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (Gol), già previsto dall’ultima legge di Bilancio del governo Conte 2 e destinatario di 4,9 miliardi a valere sul Next Generation Eu. Il ministro lo ha presentato in agosto agli assessori regionali, con i quali è necessaria un’intesa visto che hanno competenza concorrente sulla materia, e mercoledì 8 settembre ne discuterà con le parti sociali. Il progetto, sulla carta allettante, è quello di offrire cinque diversi percorsi di reinserimento nel mercato – più o meno lunghi e impegnativi – differenziati a seconda della condizione del disoccupato. Un semplice orientamento di base per coloro che sono più facilmente occupabili e hanno competenze spendibili, interventi via via più intensivi nel caso di lavoratori con bisogni complessi come quelli che non hanno nemmeno la terza media, gli ex detenuti, le madri single. In questa categoria, per cui sarà necessario un monte ore di formazione molto elevato, ricadrà la maggior parte dei percettori di reddito di cittadinanza in grado di lavorare.

Un percorso ad hoc sarebbe poi previsto per le ricollocazioni collettive, esito di crisi aziendali, con l’obiettivo di trovare chance di lavoro per il maggior numero possibile di persone coinvolte. Il tutto garantendo in ogni angolo d’Italia dei “livelli essenziali di prestazioni“, come accade per la sanità. Entro il 2025 dovrebbero essere coinvolte 3 milioni di persone, tre quarti delle quali donne, disoccupati di lunga durata, persone con disabilità, giovani under 30 e lavoratori over 55. Vasto programma se si pensa che oggi i 550 centri per l’impiego contano 8mila dipendenti più 2.500 navigator contro i 110mila del sistema tedesco e vengono usati da meno del 20% dei disoccupati (il 17,8% nel quarto trimestre 2020, in calo sul 23,1% del quarto trimestre 2019) a fronte del largo uso dei metodi informali come la richiesta di aiuto a parenti e amici (79%). Il secondo pilastro è il Piano nazionale nuove competenze – destinato anche a chi ha già un posto di lavoro in azienda ma ha bisogno di aggiornamento professionale – avviato dall’ex ministra Nunzia Catalfo. Sul fronte della formazione avranno un ruolo anche i fondi interprofessionali, finora scarsamente utilizzati e ancor meno monitorati.

Come sempre, la sfida sarà tradurre gli auspici in pratica. La realizzabilità è appesa innanzitutto al potenziamento dei centri per l’impiego, che stando al piano dovrebbero salire da uno ogni 100mila abitanti a uno ogni 40mila utilizzando anche unità mobili e sportelli temporanei. Ma per farli funzionare serve personale specializzato e le previste 11mila assunzioni da parte delle Regioni vanno a rilento. Non solo: del miliardo a disposizione per infrastrutturarli, ristrutturarli e formare gli operatori è stato speso non più del 10%. Morale: avere molte risorse non basta. Anzi, può diventare un boomerang: distribuirli a pioggia a un sistema che funziona a macchia di leopardo e in alcune zone del Paese “è inesistente”, rimarca Garnero, significa avere la certezza di sprecarle. “Per questo preoccupa il riferimento a Garanzia giovani presente nelle slide del governo (anche quel programma è di gestione regionale, ndr): non è stata certo un’esperienza di successo”. C’è un problema di fondo legato alla governance: le politiche per il lavoro in base al titolo V sono di competenza concorrente delle Regioni e ci sono Regioni che non fanno quello che dovrebbero. Quando succede in ambito sanitario arrivano i commissariamenti, invece su questa materia non c’è dibattito e le colpe vengono attribuite solo al governo e all’Anpal“.

Secondo l’economista è cruciale – al netto della necessità di trovare un’intesa con i governatori – che stavolta la distribuzione dei fondi sia strettamente condizionata al raggiungimento di specifici target qualitativi e quantitativi e di deadline temporali. Intanto, visto che “anche con la migliore riforma del mondo ci vorrà almeno un anno per vedere qualche risultato”, non va disdegnato il supporto delle agenzie per il lavoro. “Certo, il loro obiettivo è fare profitto. Ma si può regolarlo e coniugarlo con l’interesse pubblico immaginando di remunerarle in parte a risultato e in parte a processo, visto che oggettivamente molte persone, soprattutto beneficiari di reddito di cittadinanza, sono difficili da ricollocare. Si tratta di soluzioni adottate in Paesi non certo iper liberisti come Francia e Belgio”. A regime si potrebbe poi immaginare una divisione di competenze per cui “il centro privato magari si occuperà dei disoccupati relativamente più semplici da collocare e il Centro per l’impiego avrà tempo e risorse da dedicare ai casi più complessi”. In ogni caso questo non risolve tutti i problemi: “Il privato è forte nelle Regioni in cui anche il pubblico funziona abbastanza bene. Ma dove il pubblico non funziona non c’è nemmeno il privato: in Calabria, Campania e Sicilia le agenzie per il lavoro non sono certo molto presenti, perché manca la domanda”.

Insomma: nonostante i soldi europei, mandare a regime un sistema efficiente sarà un’impresa. “Di certo c’è il fatto che oggi, ma sicuramente anche domani e dopodomani, in molte regioni chi cerca lavoro non ha nessuno a cui rivolgersi e se ce l’ha non ottiene alcun aiuto”, conclude Garnero. “Anche in vista delle elezioni amministrative, questo meriterebbe un dibattito pubblico”.

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