“È l’ennesimo decreto che in nome della velocità modifica le norme esistenti, imponendo alle amministrazioni nuovi sforzi per adeguarsi. Ma il problema sono proprio le amministrazioni, che hanno subito un depauperamento drammatico a causa dei tagli fatti negli anni dell’austerità. Se mancano le competenze tecniche, queste misure sollecitatorie servono a poco”. Francesco Merloni, già ordinario di Diritto amministrativo a Perugia e consulente dell’Ocse, ha retto l’Autorità nazionale anticorruzione tra la presidenza di Raffaele Cantone e la nomina del nuovo numero uno Giuseppe Busia. Di appalti pubblici e norme per contrastare la corruzione nella pa si occupa da molti anni. Il suo giudizio sul decreto Semplificazioni approdato martedì in Gazzetta ufficiale non fa ben sperare nelle chance del provvedimento di portare i risultati attesi dal governo Draghi in termini di realizzazione rapida delle opere del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Anche stavolta, spiega, invece che affrontare di petto il punto cruciale – le stazioni appaltanti da rafforzare – si insiste con le procedure emergenziali in deroga al Codice appalti. “Se non invertiamo l’ordine dei problemi e non recuperiamo prima capacità amministrativa, non ce la faremo a concludere i progetti nei tempi previsti”.

Professore, rispetto alle bozze il testo definitivo del decreto è stato depurato dai punti più controversi, come l’aggiudicazione al massimo ribasso e la liberalizzazione dei subappalti senza paletti. Le sembra migliorato?
Non c’è la temuta sospensione del Codice appalti, che sarebbe stata un’operazione puramente demagogica e avrebbe complicato vita delle amministrazioni invece che semplificarla. Ma il vero collo di bottiglia non dipende dalle regole, è organizzativo. Il punto è che non si sono fatte due cose essenziali: la qualificazione delle stazioni appaltanti, che sono ancora 37mila nonostante lo stesso Codice del 2016 imponesse di ridurre i centri di spesa, e il loro rafforzamento, perché la qualificazione non basta se non hanno il personale necessario. Sul primo fronte, dopo cinque anni non c’è nemmeno il Dpcm sui requisiti per la qualificazione. Quanto al rafforzamento, è vero che ora sono previste assunzioni nel pubblico impiego ma non sono fiducioso, troppe norme fanno trasparire che non c’è la volontà di investire su questo.

Da cosa deriva questa situazione?
Gli anni dell’austerità di bilancio sono andati di pari passo con tagli indiscriminati al personale della pa e mancato turnover. Nel frattempo Francia e Germania facevano il contrario, rafforzando le loro amministrazioni. In Francia sono state create 1000 forme associative comunali che si occupano degli appalti per i 36mila comuni. La Germania ha investito in quadri tecnici straordinari. Così l’Italia ha perso molte posizioni in un’ideale classifica di capacità amministrativa.

Può sembrare una questione tecnica. Ma che conseguenze ha?
Ormai anche molte stazioni appaltanti medie o grandi, penso al comune di Milano o a Roma Capitale, hanno gravi difficoltà a fare la vigilanza sugli appalti e a gestire la progettazione a causa di carenze nella struttura tecnica. Significa non solo non poter progettare internamente, ma non essere nemmeno in grado di valutare un progetto affidato all’esterno: Questo poi si paga in sede di esecuzione, con le varianti e i conseguenti maggiori costi. Concordo con la proposta di Gustavo Piga: 100 stazioni appaltanti in tutto, tra province e città metropolitane. Poi diamo a ognuna 20 tecnici qualificati: ingegneri, non giuristi. Così sì che cambierebbe tutto e le gare si potrebbero tranquillamente fare con le procedure ordinarie senza ritardi. Se invece il dirigente si sente a rischio di errore è chiaro che si rifugerà nella cosiddetta “fuga dalla firma“. E allora dargli più discrezionalità non serve a nulla, anzi è controproducente.

Quindi potremmo comunque mancare l’obiettivo di rispettare il cronoprogramma?
Tagliare i tempi per legge non risolve nulla. Non dico che non servano misure sollecitatorie, ma hanno senso solo se applicate a un’amministrazione strutturalmente capace. Anche il nuovo comitato speciale del Consiglio superiore dei lavori pubblici che valuterà le dieci grandi opere “di rilevante impatto”, peraltro già commissariate, non so che risultati potrà ottenere.

Perché, se il problema sono le carenze strutturali della pa, sul banco degli imputati continua ad esserci il Codice appalti?
C’è un’evidente inerzia della politica, che tende alla banalizzazione. E’ facile dire “eliminiamo il Codice”. E poi chi li fa i contratti? Proposte del genere nascondono scarsa conoscenza dei problemi o una sottovalutazione voluta. Si dice che occorre togliere lacci e lacciuoli come se un’amministrazione potesse affidare gli appalti a chi crede, quasi fosse un privato imprenditore. Ma la pa deve essere imparziale e rispettare la concorrenza. A furia di dire che è solo burocrazia inestricabile si fanno strada tentazioni di semplificazione eccessiva, fino alla deregulation.

Con quali rischi?
Il ricorso alle procedure emergenziali, tra cui gli affidamenti diretti ora prorogati fino al 2023, comporta seri rischi di corruzione e violazione della concorrenza. Anche se questo fronte qualcosa di positivo nel decreto c’è: la banca dati degli operatori economici istituita al ministero delle Infrastrutture confluisce nella banca dati dei contratti pubblici dell’Anac e in questo modo, per esempio, la stazione appaltante prima di autorizzare il subentro di un subappaltatore potrà rintracciarlo lì e sapere chi è. Sarà sufficiente potenziare un po’ il sistema. In più c’è il nuovo nucleo anticorruzione presso la Ragioneria dello Stato, che non toglie poteri ad Anac, e la possibilità per le amministrazioni di sottoscrivere protocolli con la Guardia di finanza.

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