Non è un problema di equità. È un problema di democrazia, c’est à dire di reali possibilità di partecipazione al governo della cosa pubblica. Le basse retribuzioni, i differenziali di crescita tra redditi alti e medio-bassi, l’imperterrito divario tra i salari e gli stipendi dei top manager, sono tutti problemi economici, certo. Ma affondano altrove le proprie radici, discendono dal pessimo stato di salute della politica, della democrazia, sempre più in crisi nell’Occidente.

In altre parole, se guadagniamo poco rispetto ai nostri colleghi tedeschi o francesi, se le nostre entrate sono ferme, mentre quelle dei vari Ceo sono in continua crescita (e soprattutto sono assolutamente immeritate), non dobbiamo lamentarci con il mercato, con la Bce, con le banche o con le imprese. È la politica (o la nostra assenza dalla politica) che ha reso possibile la crescita della povertà e il progressivo indebolimento del ceto medio.

Forse vale la pena ricordare che la democrazia si fonda sulla prosperità dei ceti medi, principali fonti di stabilità. Se i ceti medi stanno bene, hanno prospettive di crescita sociale e civile, gli stati nel loro insieme stanno bene; i politici avveduti lo sanno e di solito per avere il consenso puntano su questo blocco sociale. Ma se si può governare senza consenso popolare… È stato così sempre, anche nei momenti più controversi. La crescita, la stabilità del potere hanno bisogno dell’approvazione di un ceto medio sempre più esteso. Al contrario, la prevalenza degli interessi delle élite, quelle culturali come quelle economiche, conduce gli stati inesorabilmente allo sfascio, prima o poi, è solo questione di tempo.

Il Vaticano lo sa e lo ha scritto da tempo, ma anche il governo dell’emergenza e della rinascita guidato da Mario Draghi dovrebbe saperlo. Come certamente sa anche di essere frutto di una sospensione della democrazia che ormai dura da troppo, resa possibile e aggravata da una classe politica assolutamente inadeguata, impreparata, eticamente unfit. Se democraticamente consapevole, coglierebbe certamente l’urgenza di invertire la tendenza degli ultimi decenni, si adoprerebbe per ristabilire un maggiore potere d’acquisto delle retribuzioni e per ridurre sacche di privilegi ingiustificati e ingiustificabili. Purtroppo lo status quo, l’economia italiana del Covid vanno in una direzione drammaticamente opposta a quella dell’equità fiscale e salariale.

Non è quindi questione solo di invertire quella tendenza che per ragioni corporativiste ha fatto sì che alcune retribuzioni di privilegiate categorie potessero crescere a dismisura, contro ogni ragione economica e civile (non è vero che “è il mercato bellezza”). Per riprendere la strada della crescita, del benessere e dello sviluppo abbiamo bisogno di una classe politica rappresentativa. E invece il trend della “politica” degli ultimi decenni è stato quello di inquinare l’acqua della democrazia, rendendo in tal modo possibile accumulare poche grandi fortune ingiustificate, mentre fasce crescenti della popolazione uscivano dalla loro naturale area di benessere e tranquillità sociale. Per non parlare della scuola e delle università che hanno perduto completamente il ruolo di ascensore sociale che pure avevano.

Banalità, cose drammaticamente arciripetute, che però fanno il pari con alcuni dati che dovrebbero muovere la nostra classe dirigente a sussulti di dignità, a correzioni radicali e da tempo improcrastinabili. Secondo Eurostat la retribuzione media oraria nei 27 paesi dell’Unione Europea vale 13,18 euro all’ora, superiore al dato italiano pari a 12,61 euro, contro i 17,23 di Germania, il 15,34 di Francia, il 27, 24 della Danimarca e il 31,44 della Svizzera. Se aggiungiamo che in compenso per quanto riguarda la disoccupazione giovanile (24-29 anni) con il 17,1% siamo meglio solo di Turchia, Spagna, Macedonia del Nord, Montenegro e Grecia, credo che ci sarebbe da istituire una giornata di lutto nazionale per le retribuzioni, fintanto che un governo responsabile non abbia messo mano a questi problemi, come sarebbe certamente nelle possibilità economiche del paese.

C’è però un dubbio che ci resta e che in parte potrebbe spiegare tanta immobilità di fronte alla tragedia collettiva dei salari. L’Italia, gli italiani, popolo di recentissimo benessere, in fondo più che il benessere diffuso, amano guardare e sognare la ricchezza, anche se altrui. Schiacciati da un malinteso e impotente senso individualistico di arricchimento, i poveri vorrebbero diventare principi, vivere come i signori, e si figurano i ricchi miliardari come loro ideali. La durezza dell’esistenza spinge all’evasione dalla realtà, preferiamo minuscoli frammenti di ricchezza (i telefonini da 1500 euro, i Suv, i ristoranti stellati), un po’ di consumption waste di vebleniana memoria ogni tanto, piuttosto che un permanente, moderato ma solido e diffuso benessere.

Meglio le vacanze a tutti i costi che diritti civili. Meglio piccoli sprazzi di dolce vita, piuttosto che maggiori possibilità per tutti nelle decisioni che contano; la parvenza di una vita esclusiva, anziché la dura fatica quotidiana della battaglia per la libertà e la democrazia. Se così fosse, non ne usciremo facilmente.

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