Quello sull’Afghanistan tenuto ieri dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stato un discorso freddo e cinico. Quasi spietato se si considerano le scene che in contemporanea giungevano da Kabul. Vice presidente durante gli 8 anni dell’amministrazione di Barak Obama, Biden è sempre stato fortemente contrario all’aumento dei militari impegnati nell’operazione “Enduring fredoom”, ma i toni e le argomentazioni utilizzate dal presidente hanno stupito molti osservatori e creato disorientamento tra gli alleati. Ne abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, direttore e responsabile della ricerca della società di consulenza Start InSight, ricercatore Ispi ed autore del libroAfghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga“.

Dottor Bertolotti, anche Lei è stupito dalle parole del presidente statunitense?

Voglio fare una premessa. Per ragioni anagrafiche e di salute Biden non potrà correre per un secondo mandato. È quindi l’uomo più adatto per chiudere l’esperienza afgana che, obiettivamente, per gli Stati Uniti non ha più molta ragion d’essere e verso cui l’opinione pubblica americana ha maturato una crescente disaffezione. Anche perché al contribuente statunitense è stato chiesto molto, visto che questa guerra è costata almeno 2mila miliardi di dollari. Quello che è stato completamente sbagliato sono però le modalità del ritiro, oltre ai toni e alle argomentazioni usate da Biden. È stata una figuraccia internazionale e questi errori avranno un costo, in termini di gradimento interno e percezione internazionale dell’ affidabilità di Wasghington.

Torniamo alle argomentazioni utilizzate dal presidente. Cosa in particolare non l’ha convinta?

Nel discorso di Biden ci sono parecchie inesattezze e alcune mezze verità. Innanzitutto il presidente ha completamente ignorato gli altri attori della vicenda, a cominciare dagli alleati della Nato, menzionati di sfuggita. Eppure, a loro volta, questi paesi hanno sopportato perdite umane e costi importanti per essere al fianco degli Stati Uniti in quella che era fondamentalmente una loro guerra. Il presidente è stato ingeneroso anche nei confronti delle forze afgane. Ha affermato che Kabul può contare su 300mila soldati altamente addestrati. Ma questo non è vero, né per quanto riguarda la cifra, né per quanto concerne le caratteristiche. Esercito e forze dell’ordine afgane contavano in tutto 270mila effettivi, tuttavia di questi almeno un terzo erano reclute prive di addestramento che avevano sostituito caduti e/o feriti, chi aveva disertato o si era congedato. Per di più, tra questi, esisteva una quota che possiamo definire “fantasma”, soldati che non si presentavano ma la cui assenza non veniva denunciata dai superiori che, grazie a queste omissioni, continuavano a riceverne gli stipendi. Un rapporto del Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) ha chiaramente evidenziato come solo il 10% delle forze regolari afgane fosse in grado di compiere azioni militari in autonomia. Detto ciò non va dimenticato come le forze speciali afgane si siano distinte in passato per azioni particolarmente audaci e di successo nella riconquista di alcuni centri che, una volta liberati e affidati alle autorità, sono stati rapidamente restituiti ai talebani.

Nelle parole di Biden c’è anche un totale disconoscimento delle scelte compiute dalle precedenti amministrazioni…

Anche su questo il discorso non brilla per onestà intellettuale. Biden afferma che quella in Afghanistan non è mai stata una missione di “Nation building” (costruzione di uno Stato, ndr) ma di semplice contrasto al terrorismo. Purtroppo le parole dei suoi predecessori contraddicono completamente questa tesi. George W. Bush, il presidente che ha iniziato l’operazione nell’ottobre del 2001, scrive nel suo libro di memorie che quella in Afghanistan è stata “l’ultima missione statunitense di Nation building”. Lo stesso presidente Obama ha molto insistito su questo aspetto della campagna che, anzi, durante il suo mandato, si è cercato di accelerare come premessa per il ritiro. Infine il presidente scarica sul predecessore Donald Trump la responsabilità di aver firmato con i Talebani gli accordi per il ritiro statunitense. Questo è vero ma è anche vero che la firma è avvenuta nell’ambito di colloqui avviati sotto l’amministrazione Obama. Inoltre in questa intesa ci sono diverse condizioni, a cominciare dall’impegno talebano a non ricorrere alla violenza. Clausola chiaramente calpestata in questi giorni. Se avesse voluto farlo Biden avrebbe avuto la possibilità di ignorare quell’accordo.

Così facendo la Casa Bianca si pone in contrasto anche con il Pentagono, o sbaglio?

No, è così. Il Pentagono si è sempre opposto al ritiro e ha cercato di rimandarlo il più possibile. Obama scelse di ascoltare i generali e di ignorare la posizione del suo vice. Ora qui si contrappongono due visioni su quella che dev’essere la postura statunitense sullo scenario internazionale. I militari, in particolare il generale David Petraeus che ha codificato le sue tesi nella direttiva Fm3-24 del 2006, la intendono come un’azione di counter insurgency (contro guerriglia con l’uso di forze armate tradizionali su larga scala, ndr). Biden sposa una linea più minimalista, di counter-terrorism, che si esaurisce con l’eliminazione delle minacce. Questo pone problemi anche a noi alleati, visto che tutte le operazioni in atto, compresa quella nel Sahel (area dell’Africa subsahariana che include il Mali dove è in corso un’operazione a guida francese che includono contingenti italiani e di altri paesi europei, con obiettivi di stabilizzazione, ndr) partono dal modello dottrinale della counter-insurgency per diventare SFA – Security Foirce Assistance. Personalmente penso che servirebbe un approccio più pragmatico, con risposte da valutare caso per caso.

Gli Stati Uniti ormai se ne sono andati. Verranno rimpiazzati dalla Cina?

No. La Cina non ha nessuna intenzione, saggiamente, di avventurarsi con uomini e mezzi in un paese che si è dimostrato quasi impossibile da governare. Andrebbe ad impantanarsi. Pechino ragiona in un’ottica di medio lungo termine, guardando da qui a 30 anni. In questa prospettiva ha certamente interesse ad una stabilizzazione dell’Afghanistan che le permetta di sfruttarne le grandi risorse minerarie su cui ha già fatto investimenti importanti. Ma non vedremo un solo soldato cinese varcare il confine, vedremo invece in futuro degli eserciti ma saranno eserciti di minatori e ingegneri. Aggiungo che un Afghanistan destabilizzato produce un Pakistan destabilizzato, paese in cui la Cina sta investendo molto anche in chiave di contrasto all’India.

C’è poi la questione degli Uiguri, la minoranza di religione islamica che abita le zone del nord ovest cinese e che crea molti grattacapi alle autorità. La Cina peraltro è accusata di diverse violazioni di diritti umani perpetrate a danno di queste popolazioni.

La grande paura cinese è che le logiche della Jihad contamininoo queste aree, che prenda piede la suggestione di un Islam che si afferma. Non dimentichiamo che gruppi jihadisti uiguri hanno combattuto in Afghanistan insieme ai Talebani. E non dimentichiamo neppure il fatto che, già nel 2015, Pechino accolse ufficialmente una delegazione talebana per discutere anche di tale questione. All’epoca la richiesta cinese fu quella di un’eliminazione delle forze Uigure che si battevano al loro fianco.

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