Era chiaro che le forze dell’ordine avrebbero caricato il corteo con violenza sadica. A Napoli, pochi mesi prima del G8, le forze dell’ordine avevano dato prova della loro mancanza di pietà.

Alcune settimane prima del macello di Genova pubblicai un articolo dal titolo: “Chi vuole un morto a Genova?” sul blog delle Tute Bianche. Avanzai la proposta di tenere il corteo lontano dagli sbarramenti della zona rossa e di sfilare nudi, con l’unica eccezione di preti e suore che potevano intervenire in costume da bagno. In questo modo le forze reazionarie non avrebbero avuto modo di farci passare per aggressori violenti. Inoltre, migliaia di persone che sfilano nude avrebbero avuto una risonanza sui media mondiali cento volte più forte. Il nostro obiettivo era quello di denunciare le politiche economiche e militari dei signori del mondo e non avevamo a disposizione un modo di comunicare più efficace.

Non fui il solo a sostenere questo punto di vista. All’ultima assemblea della Rete di Lilliput che si tenne a Livorno, venne presentata una mozione simile che fu approvata. Ma nei fatti presero il controllo della situazione alcuni leader che volevano il sangue perché il sangue avrebbe reso più visibile la nostra protesta.

Così l’ala pacifista della rete venne annichilita da chi propugnava la via dello scontro fisico e da chi non capiva che era assurdo cercare di tenere insieme un corteo pacifista, chi voleva gli scontri (le Tute Bianche) e gli ultraviolenti (nipotini dell’Autonomia Operaia degli anni ‘70) che volevano devastare la città.

Le Tute Bianche dicevano “non vogliamo attaccare ma ci difenderemo”.

Nei due giorni che precedettero il disastro i tg ci innaffiarono con le scene di giovani che nello stadio si bardavano con materassini di gomma legati con lo scotch, armature di gommapiuma, scudi di plastica. Si allenavano a volto coperto di fronte alle telecamere nel corpo a corpo. E sottolineo: lo facevano di fronte alle telecamere dei tg di Berlusconi.

Questi video furono il cacio sui maccheroni per chi aveva già deciso di usare i reparti di polizia come un tritacarne con l’aggiunta di gruppi di provocatori fascisti pronti a infiltrarsi nel corteo…

Due giorni prima dell’inizio delle proteste insieme a mio padre e mia madre telefonammo ad alcuni leader implorandoli di fare marcia indietro. Bisognava spostare il corteo in periferia! La risposta fu: “Ormai nessuno può fermare la situazione!”. E forse era vero. Erano molti a vivere quei giorni come una crociata verso il martirio. Stefano Benni, che era andato a Genova, aveva cercato di convincere i compagni a non rischiare lo scontro, non ci riuscì e decise di andarsene.

Poi iniziò il disastro.

Quando le telecamere registrarono le immagini dei guerrieri comunisti che uscivano dallo stadio con il volto coperto, le armature di gomma e nastro adesivo, i caschi e gli scudi diedero il via alle cariche.

Contemporaneamente i Black Bloc, in parte infiltrati fascisti, in parte militanti di gruppi ultraviolenti, iniziarono le devastazioni. Sempre disponibili a ripetere le distruzioni se le telecamere non erano riuscite a riprendere bene la scena.

La polizia, schierata in assetto di guerra, lasciava che i Black Bloc facessero i loro comodi e poi si ritirassero. A quel punto caricavano le Tute Bianche e gli spezzoni pacifici del corteo manganellando boy scout, suore, frati e disabili. E possiamo vedere mille fotografie che mostrano le Tute Bianche, con le loro armature di gomma e nastro adesivo, a terra, massacrati dalle manganellate. E mi chiedo quale follia abbia portato a scegliere quella tenuta da battaglia. Quando negli anni Settanta andavamo allo scontro si metteva la camicia e la giacca per non essere individuati…

Quelle armature si dimostrarono una scelta tragica. Il prosieguo è noto. Torture a Bolzaneto, macelleria alla Diaz, Carlo Giuliani ammazzato…

Un fatto però è stato taciuto dai più: la cronaca in diretta di Radio Popolare ci racconta che a un certo punto un carabiniere finisce per terra, isolato, un gruppo di violenti si accanisce su di lui a bastonate. Nella radiocronaca si sente qualcuno che grida: “Lo ammazzano! Lo ammazzano!”. Poi un gruppo di pacifisti interviene, fanno scudo al carabiniere in modo non violento e riescono a salvarlo allontanando i picchiatori.

Un gesto di civiltà in mezzo alla barbarie. Non si picchia un uomo a terra!

Il lunedì dopo ero ad Alcatraz quando telefonò un amico carabiniere che piangendo raccontò che con la sua squadra erano stati costretti a caricare un gruppo di poliziotti che stavano ammazzando di botte alcuni manifestanti ormai a terra. Un gesto di civiltà in mezzo alla barbarie. Nelle mille battaglie di piazza degli anni Settanta non era mai successo di scontrarsi con i tuoi per difendere i nemici.

Era evidente che a Genova, con Fini – un post fascista – come vicepresidente del Consiglio non ci si poteva aspettare un esito diverso. Si poteva piuttosto sospettare che la destra volesse sfruttare l’occasione per darci una lezione. E nessuno nella rete pacifista di Lilliput poteva illudersi che non si sarebbe versato sangue. Solo un bambino poteva credere veramente che un corteo insieme all’ala intransigente e a gruppi estremisti sarebbe stato una tranquilla passeggiata lungo i confini della zona rossa presidiata militarmente e cinta con reti d’acciaio altissime per proteggere l’incontro dei grandi della Terra.

Un gruppo minoritario scelse di mettere la testa nella trappola che era stata preparata dal governo Berlusconi. E dobbiamo chiederci perché in migliaia seguirono la scelta di offrirsi in una sorta di olocausto. Molti pensarono che fosse giusto e utile farsi massacrare dalla polizia, subire la stessa violenza che soffrivano i popoli del terzo mondo, nel cuore dell’occidente ricco, di fronte alle telecamere.

Qualche cosa di simile a quel che Martin Luther King organizzò nel 1965 nella marcia da Selma a Montgomery: il Bloody Sunday. 600 attivisti dei diritti civili affrontarono senza reagire i manganelli della polizia e vennero pestati senza alcuna pietà. Le immagini di quella violenza infiammarono tutto il movimento progressista portando a un’esplosione di proteste mai vista negli Usa.

Ma Genova non era Montgomery.

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