Insieme al vaccino italiano Reithera arranca pure il monoclonale made in Italy, tanto che entrambi rischiano di restare in provetta. Mentre l’Europa tutta è presa d’assalto dalla variante Delta. Il vaccino prodotto dalla società di Castel Romano in collaborazione con l’Imi Spallanzani è entrato nella fase due (su tre) della sperimentazione ma è rimasto “congelato” dopo che la Corte dei Conti, a maggio, ha bocciato il finanziamento governativo da 81 milioni di euro allontanando così la produzione nazionale che, da tre mesi, viene fatta da multinazionali che infialano il prodotto per i mercati esteri. Se va bene, la produzione per l’Italia partirà tra 5-6 mesi, non prima.

Ora si addensano nubi pure sul “monoclonale italiano”, quello sviluppato a Siena nei laboratori di Toscana Life Sciences. A rivelare le difficoltà è lo stesso Rino Rappuoli, direttore scientifico e responsabile Ricerca e Sviluppo di GlaxoSmithKline, alla Giornata del Ricercatore alla Maugeri di Pavia. Il farmaco neutralizza tutte le varianti del virus, viene somministrato con una semplice iniezione, anche a casa del paziente, anziché per via endovenosa in ospedale come quelli prodotti negli Usa. Doveva arrivare negli ospedali a fine primavera, guarda invece con fatica al traguardo delle due fasi successive di sperimentazione: mancano infatti candidati-pazienti e finanziamenti. Entrambi i progetti richiedono dunque nuovi investimenti pubblici. Si confida nei fondi per la ricerca biotech previsti nel sostegni bis, circa 400 milioni. Al momento, però, non ci sono certezze.

La notizia che arriva da Siena ha riflessi sul piano sanitario ma non solo. Assesta un altro duro colpo all’illusione della risposta nazionale alla pandemia che tanti entusiasmi aveva suscitato, anche a scapito di farmaci già pronti all’uso a lungo rimasti appesi al sogno autarchico politicamente luminoso ma traballante. Nello specifico, segna anche l’epilogo delle polemiche sui ritardi nell’autorizzare cure già disponibili. Erano deflagrate a fine 2020 dopo lo scoop del Fatto Quotidiano che rivelò come il virologo di Atlanta Guido Silvestri, già a settembre, avesse prospettato alle autorità sanitarie la sperimentazione gratuita di monoclonali di Eli Lilly, e come fosse inspiegabilmente caduta nel vuoto mentre ospedali e terapie intensive tornavano a riempiersi. Anche in forza di quel caso, che scosse l’Aifa dall’interno, a febbraio 2021 il ministro Speranza autorizzò di forza l’uso in emergenza dei farmaci americani. Ci volle un mese ancora perché arrivassero nei 17 hub individuati per la somministrazione. Solo il 27 marzo scorso in Italia si è iniziato a trattare i pazienti. In tre mesi (dati del 12 luglio) sono stati prescritti a 6.198 positivi.

Si tratta di un numero molto al di sotto delle attese. Le motivazioni sono diverse: difficoltà organizzative, a individuare la platea dei pazienti eleggibili al trattamento (vale a dire positivi precocemente diagnosticati in condizioni di fragilità, con patologie pregresse, ultrassessantenni etc) e infine il calo dei positivi alla vigilia dell’estate che ora è in controtendenza: nell’ultima settimana rilevata li hanno ricevuti 74 pazienti, un numero per la prima volta in crescita dopo mesi di calo e che va di pari passo con l’aumento registrato nei contagi. Pochi o tanti che siano i pazienti curati, l’incertezza in cui precipita ora l’alternativa made in Italy dimostra che senza l’autorizzazione “forzata” dei monoclonali americani, probabilmente, sarebbero stati anche di meno.

Intervistato dal Messaggero, Rappuoli ha così smorzato gli entusiasmi. I tempi della fase 2 e 3 non sono attualmente prevedibili “il programma prevede che il test venga effettuato su 800 persone che hanno avuto tampone positivo: abbiamo cominciato a metà maggio e finora ne abbiamo reclutati solo un centinaio. È difficile contattare eventuali candidati per ragioni di privacy”. Inoltre, ma Rappuoli non lo dice, è difficile trovare un positivo che accetti di essere sottoposto a placebo o a un farmaco nuovo quando già sono disponibili quelli “testati” su 6mila pazienti. Per affrontare il problema la Regione Toscana sta diffondendo l’opportunità del monoclonale via internet. “Speriamo che questa campagna di informazione produca risultati efficaci, altrimenti dovremo continuare il lavoro all’estero. In Italia – ha sottolineato Rappuoli – si può fare una buona ricerca, ma oggi mancano ancora finanziamenti per avere laboratori competitivi a livello internazionale. Speriamo che con i fondi del Pnrr si facciano gli investimenti necessari”.

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