“Una telefonata allunga la vita”, recitava un divertente spot in tv di Massimo Lopez per la Telecom negli Anni Novanta. E un colpo di Stato, magari fasullo, allunga la vita politica e rafforza il potere di un leader autoritario, che molti non sarebbero forse stati scontenti di vedere rimosso, ma cui tutti dovevano dichiarare solidarietà nel momento in cui la democrazia, che già era una ‘democratura’, veniva messa in pericolo da un complotto militare, in un Paese che già altri ne aveva visti.

Cinque anni dopo quelle drammatiche concitate fasi a cavallo tra il 15 e il 16 luglio 2016, quando per poche ore la sorte della Turchia parve incerta, il presidente Recep Tayyip Erdogan, 67 anni, è ancora saldo al suo posto e ha anzi consolidato la sua posizione dopo il referendum costituzionale del 2017: nel 2019, il Royal Islamic Strategic Studies Centre di Amman lo collocava al primo posto fra i musulmani più influenti nel mondo.

Erdogan, premier turco dal 2003 al 2014 e da allora presidente, fondatore e leader dell’Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), che dal 2002 vince le elezioni politiche, ha un background islamista e si autodefinisce “un democratico conservatore”: in politica interna, le sue scelte politiche, sociali ed economiche sono conservatrici e populiste; in politica estera, è diventato l’assoluto protagonista di tutte le intricate vicende mediorientali, sfruttando la posizione di confine e cerniera della Turchia tra l’Occidente e il mondo musulmano, da una parte, e la Russia e l’Asia centrale dall’altra.

Vero o falso che fosse, il colpo di Stato per rovesciarlo, tempestivamente intercettato, gli ha fornito un doppio schermo protettivo: ne ha lucidato l’immagine di leader efficiente, capace di smascherare e debellare la trama orditagli contro; e lo ha reso la vittima designata d’uno schema complottistico, di per sé anti-democratico. Non che Erdogan sia – e fosse già allora – un punto di riferimento democratico, ma è di sicuro la scelta del popolo turco: il premier italiano Mario Draghi lo ha recentemente qualificato di dittatore, salvo poi considerarlo “necessario”, perché da anni si accolla, con i soldi dell’Europa, l’onere di tenere in Turchia fino a due milioni di rifugiati siriani, impedendo loro di tentare la via dell’Ue.

Capace di guardare ‘dall’alto in basso’ – forte del suo metro e 85 – la stragrande maggioranza dei suoi interlocutori, Erdogan può permettersi rapporti spesso conflittuali con i suoi vicini, la Grecia e Cipro, tutto il Medioriente e Israele, e relazioni contraddittorie con i grandi partner: di Usa e Ue e della Russia, è alleato su certi fronti e rivale su altri. Né Putin né Biden lo amano, come non l’amava Trump, ma Mosca e Washington non possono permettersi di scaricarlo. Lui, invece, è così sicuro del suo potere da concedersi gesti provocatori, come la sedia negata lo scorso aprile alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in visita ad Ankara con Charles Michel, presidente del Consiglio europeo.

Il colpo di Stato offrì a Erdogan la ragione, o il pretesto, di sbarazzarsi di quanti gli resistevano nelle istituzioni turche, specie nelle forze armate e nella magistratura, richiamandosi alla laicità dello Stato di cui il fondatore della Turchia moderna Mustafa Kemal Ataturk fece un punto fermo e che Erdogan ha invece messo in soffitta. La guerra al terrorismo integralista gli ha fornito l’occasione di contrastare ‘manu militari’ i curdi, dentro e fuori dai confini nazionali, trattandoli come se fossero tutti terroristi. L’uno e l’altra gli sono serviti a ‘normalizzare’ l’informazione, mettendo in galera giornalisti non allineati.

Non ci sono certezze per stabilire se e in che misura quanto avvenne in Turchia cinque anni or sono fu davvero un tentato golpe militare messo in atto da una parte delle forze armate per rovesciare Erdogan e prendere il potere; o se fu tutta una messa in scena. Secondo Erdogan, il complotto sarebbe stato organizzato dal predicatore e politologo turco Fethullah Gülen, un suo oppositore, esule negli Stati Uniti, dove vive in una casa di riposo. Gülen, invece, suggerisce che il colpo possa essere stato inscenato dallo stesso presidente.

Analisti indipendenti oscillano fra i due estremi: vero golpe, per taluni improvvisato, per altri ben organizzato; o fumo negli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, per legittimare ulteriori restrizioni alle libertà civili e una serie di purghe fra i militari e i magistrati, colpendo pure gli intellettuali.

I dati disponibili sono che vi furono circa 300 vittime – 290, ufficialmente – e quasi 1500 feriti – 1.440 è il numero presunto esatto. Per le cifre fornite dalle autorità turche, i golpisti arrestati furono 2893, i giudici rimossi 2745, gli ufficiali e i militari oggetto di misure disciplinari o congedati un numero imprecisato.

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