Non sarà a Buenos Aires, sua città natale; non sarà a Dubai o Doha o altre mete scelte per interessi degli sponsor. Sarà a Napoli!

La città partenopea è stata scelta dalla Fifa come sede, nel prossimo dicembre o gennaio, della partita valida per la Copa Maradona che vedrà lo scontro tra l’Argentina, campione della Coppa America, e l’Italia, vincitrice dei Campionati Europei. Un tributo al D10S del calcio che, ormai leggenda, sembra aver guidato dall’alto dei cieli le costellazioni affinché favorisse le vittorie delle due nazioni in cui si è realizzato come calciatore.

Ma la partita come evento sportivo, tra l’altro già vissuto 31 anni fa, non mi interessa. Passa in secondo piano.

Il fatto rilevante è aver deciso di farla giocare a Napoli, allo stadio Diego Armando Maradona, ex San Paolo. Quasi come se Diego, nell’immaginario collettivo, si identifichi innanzitutto e prevalentemente con Napoli. E poi fosse anche argentino.

La Copa Maradona in quello stadio ha lo stesso significato di un premio alla drammaturgia eduardiana al teatro San Ferdinando. L’habitat antropologicamente naturale in cui respirare l’anima degli immensi. Voglio pensarla così. Da fratello minore (non solo anagraficamente) di Diego e di Eduardo.

Perché il processo di identificazione di Maradona con Napoli e i napoletani si basa su due presupposti psicologici.

Il primo tiene conto del fatto che, citando Jean Laplanche, l’identificazione è “un processo psicologico con il quale un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo, un comportamento di un luogo e si trasforma, totalmente o parzialmente sul modello di questo fino ad influenzarne la personalità”. La costruzione dell’identità personale, in altri termini, passa attraverso l’interazione della persona con l’ambiente e l’interiorizzazione del contesto sociale in cui si è inseriti.

In sintesi Diego è solo nato anagraficamente a Buenos Aires, ma è rinato a Napoli come re. Re dei lazzari felici di aver trovato in lui il nuovo Masaniello, quello che ebbe il coraggio di schierarsi contro il sistema dalla parte dei più deboli. Lui, il calciatore dal talento irripetibile, il rivoluzionario capace di trasformare il calcio in opera d’arte disegnando traiettorie impossibili, sfidando leggi di gravità con quel suo sinistro capace di far gonfiare la rete. Lui re degli scugnizzi, del popolo di una città da sempre messa all’angolo, dilaniata dal terremoto e dalle lunghe mani della camorra sempre pronta ad insanguinare le sue strade, a sporcarla e a farla sbattere sempre in prima pagina come un mostro, una città perduta e irrecuperabile. E lo comprese, purtroppo, immediatamente.

La dinamica identitaria implica però anche una seconda dimensione: nello stesso tempo che noi ci rendiamo simili ad altri, noi miriamo a distinguerci, a rivendicare quella distintività. Perché l’identità è sempre appartenenza: a un luogo, a un sistema culturale, ad un contesto sociale.

“Questo successo mi ha reso più felice (della vittoria della coppa del mondo) perché ho vinto a casa mia”, ripeteva Diego al San Paolo di Napoli il 10 maggio 1987, giorno del primo scudetto del Napoli, ai microfoni di un affannato Giampiero Galeazzi. E a casa sua, quel luogo dove vengono custoditi i nostri ricordi, dove continueranno sempre ad esistere parti di noi e dei nostri cari, ci sarà sempre posto per il bel calcio.

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