Il cinema di Asghar Farhadi è una garanzia. D’altra parte non si vincono due Oscar a caso. Concorrente a Cannes come i suoi film, è arrivato Ghahreman, che dal farsi è stato tradotto nel titolo internazionale A Hero, cioè un eroe. Ambientato nella città di Shiraz, collocata nell’Iran sudorientale e nota come centro culturale e botanico, il nono lungometraggio di Farhadi segna il suo piacevole ritorno in patria dopo la doppia escursione straniera (Francia e Spagna) che aveva dato risultati leggermente meno soddisfacenti.

L’humus di casa, e la propria lingua con cui poter imbastire i sempre fitti dialoghi che intessono le sue opere, gli hanno permesso di scavare in profondità non solo sui grandi temi umani, ma anche su quelli della società iraniana, con le sue contraddizioni, idiosincrasie, ipocrisie. Ecco che un piccolo uomo qualunque di provincia, in galera per debiti insoluti, si trova nel vortice di una situazione apparentemente paradossale: trova per caso una borsa contenente alcune monete d’oro, fa il gesto di restituirla invece di approfittarne per (finalmente) saldare il suo debito ed essere scarcerato, e si ritrova prima osannato a eroe nazionale con tanto di tv, associazioni benefiche e istituzioni a celebrarlo e immediatamente dopo accusato di imbroglio. Dalle stelle alle stalle nella classicità di una parabole non nuova ma costruita “alla Farhadi”, con in mezzo un universo di chiacchiere incapaci di cogliere la Verità dei fatti. Ed è qui che la sapienza del cineasta e drammaturgo di Teheran emerge con la sua cifra riconoscibile: con la consueta drammaturgia e regia ai limiti della perfezione, Farhadi apre all’ambiguità, al dualismo insoluto fra verità e falsità & realtà e finzione, al potere sovrastante della visione – “di ciò che appare” – rispetto alla dichiarazione verbale, alla fragilità dell’umana sorte, alla famiglia quale luogo simbolico per eccellenza da dove tutto parte e tutto ritorna.

E se questi sono i temi a lui notoriamente cari, questo film gli offre l’occasione di focalizzare su altri due istanze rese problematiche nel testo: l’urgenza di possedere il denaro (che si vede e tocca nel film in più di un’occorrenza) e l’impossibilità di sfuggire alla dittatura dei social media, persino quasi più potenti del fondamentalismo islamico che governa l’Iran. A Hero, acclamato alla proiezione ufficiale e nella prossima stagione nelle sale italiane grazie a Lucky Red, si conferma quanto il cinema di Asghar Farhadi non si mai formulato di bianchi e di neri ma intessuto di un’infinità di grigi, gli stessi di cui si compone la nostra coscienza.

Nell’ambito del medio concorso di Cannes 2021, a cui mancano otto opere per comporsi, si sono come ogni anno evidenziate alcune buone se non ottime visioni, fra sorprese (il gigantesco Drive my car del giapponese Ryusuke Hamaguchi, il fantascientifico/horror umanista Titane di Julia Ducournau, la commedia sociale La fracture di Catherine Corsini, le inquietudini nordiche del norvegese Joachim Trier con Verdens Verste Menneske e conferme (il cinema libero di Mia Hansen-Love con Bergman Island, le architetture geniali di Wes Anderson con The French Dispatch) e delusioni tra cui spiccano Ha’Berech del pur talentoso israeliano Navad Lapid, Flag Day del divo Sean Penn e parzialmente Tre piani di Nanni Moretti.