Chissà cosa si aspettava, Matteo Renzi. In fondo proporre un referendum per abolire il reddito di cittadinanza ad un convegno di Confindustria aveva un po’ il sapore del tiro a porta vuota in uno stadio amico. Eppure è riuscito a “spararla” in tribuna. Anche dai giornali “amici”, o comunque non ostili, la proposta è stata pressoché ignorata. Il Sole 24 Ore, quotidiano di proprietà di Confindustria, non dedica alla proposta neppure una riga. Lo stesso su La Stampa della famiglia Agnelli e tutto tace pure sul Corriere della Sera di Urbano Cairo o su Il Messaggero di Francesco Gaetano Caltagirone. La Repubblica, sempre degli Agnelli, dà conto dell’uscita di Renzi ma solo per sottolineare la “reazione fredda” della platea di industriali. L’unico che raccoglie la palla di Renzi è Matteo Salvini che “twitta” ancora sulla leggenda degli imprenditori del turismo che non trovano personale a causa del reddito di cittadinanza. A conferma del progressivo avvicinamento dei due Matteo, già messo in luce dalla sintonia contro il Ddl Zan.

Del resto Confindustria, che ha appena portato a casa la vittoria sulla fine del blocco dei licenziamenti, non sembra intenzionata ad imbarcarsi per una crociata che, in un periodo di forte disagio sociale, avrebbe davvero il sapore dell’accanimento contro i più deboli. Ieri l’Istat ha fatto sapere che 1,6 milioni di nuclei familiari hanno beneficiato di reddito o pensione di cittadinanza, in totale 3,7 milioni di persone per un esborso complessivi di 7 miliardi di euro. Guardando ai dati dell’Ufficio parlamentare di bilancio si scopre che solo lo scorso anno le imprese hanno ricevuto aiuti e incentivi per oltre 50 miliardi di euro.

Forse anche alla luce di queste cifre, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha sottolineato la necessità di procedere spediti verso una riforma complessiva degli ammortizzatori ma non ha “stressato” il tema del reddito di cittadinanza. La misura è stata menzionata dal presidente dei Giovani imprenditori Riccardo Di Stefano che, tuttavia, non è si è spinto a chiederne l’abolizione ma piuttosto dei correttivi. Pur con evidenti imperfezioni, soprattutto per quel concerne la parte “attiva” relativa all’opera di collocamento, dalla sua introduzione il reddito di cittadinanza ha raccolto per strada diversi sostenitori, persino alcuni convertiti. Complice il periodo pandemico, che ha reso indispensabili misure di sopravvivenza per le fasce più disagiate della popolazione, sono in molti a riconoscere che il reddito ha contribuito ad attutire gli aspetti più devastanti della crisi arginando le tensioni sociali.

Di recente abbiamo assistito alle lamentele di alcuni cuochi e capi bagnini che si sono lamentati perché con un reddito garantito (che raggiunge al massimo i 750 euro al mese) a trovare giovani disposti a lavorare è diventato più difficile. Salvo poi scoprire che le condizioni lavorative proposte alla “gioventù recalcitrante” erano salari da fame e orari senza nessuna regola. Ma questa linea falsamente moraleggiante è quella che Matteo Renzi ha deciso di sposare, nel momento in cui definisce il reddito di cittadinanza un “provvedimento diseducativo”. Questo approccio sull’effetto disincentivante di redditi di base è stato peraltro molto ridimensionato nel corso degli anni dagli studi e dalle ricerche condotte sull’argomento.

Molte sono riassunte nel libro “The economics of belonging” dell’editorialista del Financial Times (il giornale della finanza internazionale) Martin Sandbu. L’autore spiega tra l’altro come uno dei meriti dei redditi universali di base sia proprio quello di stabilire una soglia al di sotto della quale le buste paga non possono scendere. Questo incentiva le aziende a cercare la crescita di competitività migliorando produttività, processi e prodotti, piuttosto che adagiandosi sul basso costo del lavoro. Dare alle persone almeno una minima possibilità di dire “no” a lavori sottopagati e senza diritti, finisce per avere un effetto positivo su tutta la struttura economica di un paese. Inoltre, spiega Sandbu, sostenere che un reddito di base induca le persone a non lavorare significa ignorare la differenza tra sopravvivere ed avere un buon tenore di vita, dimenticare l’importanza dello status sociale, il senso che può dare un’occupazione e il piacere stesso che può derivare dal lavoro. Non esiste nessuna evidenza che la semplice possibilità di non lavorare porti le persone a non farlo per davvero. L’Alaska paga da anni i suoi cittadini grazie alle royalties derivanti dallo sfruttamento dei suoi giacimenti petroliferi e afferma di non aver mai registrato “alcun effetto sull’occupazione”.

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