Primi colpi di quella che sarà la grande battaglia europea dei prossimi anni. Il ritorno, o meno, delle regole di bilancio così come le conoscevamo prima del Covid. Detta altrimenti, nuova austerità o virata verso politiche economiche meno “impiccate” ai numerini magici del 3 e del 60%. L’ex ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, grande artefice del trattamento “lacrime e sangue” applicato alla Grecia per salvare le banche tedesche e francesi, oggi presidente del parlamento tedesco, ha aperto le danze dalle pagine del Financial Times. Le stesse da cui Draghi aveva esposto la sua teoria del debito “buono”. Schaeuble avverte che “per mantenere la pace sociale in Europa urge tornare a una severa disciplina fiscale“.

Il destinatario del messaggio è facilmente intuibile ma l’ex ministro si premura di specificarlo: “L’esperienza mostra che i bilanci in pareggio nei paesi con alti livelli di debito sono quasi irraggiungibili senza pressioni esterne. Lasciati a se stessi, i membri di una confederazione di stati rischiano di soccombere alla tentazione di contrarre debiti a spese della comunità. Ho discusso più volte di questo “azzardo morale” con Mario Draghi. Siamo sempre stati d’accordo che, data la struttura dell’Unione monetaria europea, la competitività e le politiche finanziarie sostenibili sono responsabilità degli Stati membri. In poche righe l’ex ministro tedesco riesce insomma a buttare alle ortiche qualsiasi cifra reale e a resuscitare il più stanco e infondato degli stereotipi, quello dei paesi del Sud Europa cicale e spreconi finanziati dai nordici virtuosi.

Più timidamente, il vicepresidente lettone della Commissione Ue Vladis Dombrovskis ha affermato, la scorsa settimana, che le regole del patto di stabilità andranno ripristinate già dal 2023 e qualche segnale in tal senso è arrivato. E ieri la Commissione Ue ha iniziato a richiamare i paesi euro ad una maggiore attenzione alle finanze pubbliche. Nel frattempo però il mondo è cambiato. La media dei debiti dell’area euro è salita al 96% del Pil. Quello della Francia ha superato il 115%. Una cifra che ha messo in moto dinamiche politiche: riavvicinarsi all’Italia in chiave anti tedesca. Un’austerità imposta per ridurre debiti senza che ce ne sia bisogno avrebbe effetti devastanti su popolazioni già provate dalla pandemia, aprendo autostrade per l’avanzata di populismi. Lezione che la storia ha ripetuto decine di volte. Lo sa Roma, lo sa Parigi, lo sa Berlino e lo sa anche Washington.

La montagna del debito italiano non è mai stata così alta – E non è quasi mai stata così leggera. Un rapporto debito/Pil del 155% non si vedeva dalla fine della prima guerra mondiale ma questo fardello ci costa sempre di meno. Secondo alcune simulazioni nei prossimi 10 anni l’Italia spenderà in interessi sul suo debito 630 miliardi di euro, meno dei 707 miliardi pagati tra il 2010 e il 2019 e quasi 100 miliardi di meno rispetto ai 727 sborsati tra il 2000-2009. La ragione è nota: oggi indebitarsi non costa nulla e man mano che il debito esistente arriva a scadenza viene sostituito con nuove emissioni di Bot e Btp (al ritmo di 400 miliardi all’anno) che costano meno allo Stato. Il peso del debito continuerà a scendere finché le condizioni di mercato rimangono queste. A mo’ di divertissement qualche tempo fa gli analisti di Deutsche Bank hanno calcolato che i tassi in Italia sono al livello più basso dal 1310. Preoccuparsi per una possibile insolvenza dell’Italia ha meno senso oggi che 10 o 20 anni fa.

Animale strano, il debito. Il più politico tra gli indicatori economici, che permette di condizionare e rende condizionabili. Arma di ricatto, impugnabile da entrambi i contendenti. Come recita un noto adagio, se hai un debito di 10mila euro con la banca, la banca ti possiede. Se il debito è di 10 milioni sei tu che possiedi la banca. Vale anche tra paesi. Una bella fetta del debito italiano è oggi in Francia, circa 300 miliardi di euro di titoli sono nelle banche e nelle assicurazione transalpine. Un’altra fetta da 100 miliardi è in Germania. Volenti o nolenti, quelli dei tre paesi più importanti dell’euro sono destini (finanziari) incrociati con legami che il nuovo pacchetto di debiti da 360 miliardi di euro dispensato con il Recovery fund (circa 120 miliardi solo per l’Italia) ha reso ancora più stretti. Solo che Berlino vede i nuovi finanziamenti come una leva in più per pretendere riforme di suo gradimento. Roma e Parigi come strumento per ripensare la struttura dell’eurozona.

In valore assoluto il nostro debito pubblico ammonta a 2.216 miliardi di euro. Ma di per sé la cifra conta relativamente. Il numero che serve guardare è il rapporto con il Prodotto interno. Se una famiglia ha un debito di 100mila euro e guadagna 30mila euro l’anno, questo debito è alto. Se ha un reddito di 200mila lo stesso debito è basso. Il rapporto italiano debito/pil è esploso nell’ultimo anno soprattutto a causa della caduta senza precedenti del Pil che però, già quest’anno, dovrebbe segnare una ripresa piuttosto energica (+4,3% secondo il Fondo monetario internazionale). Non fasciamoci troppo la testa per figli, nipoti e pronipoti. Nessuno ripagherà mai questi debiti, in nessun paese. Quello che accade è che man mano che i titoli di Stato arrivano a scadenza vengono rimborsati con le somme che si raccolgono emettendo nuovi titoli per lo stesso ammontare. Certo, più i titoli da emettere aumentano, più si è esposti ai mutamenti delle condizioni di mercato. Il vero pericolo è questo.

“Nel mondo c’è fame di titoli come quelli italiani” – Come spiega a Ilfattoquotidiano.it l’economista e presidente dell’Associazione italiana di private equity Innocenzo Cipolletta, “La sostenibilità del debito italiano è una questione politica, non finanziaria. Dipende dal fatto che ci sia o meno la percezione che il paese possa uscire dall’euro o che l’architettura della moneta unica possa collassare per i contrasti tra paesi“. “Nel mondo c’è grande abbondanza di liquidità, continua Cipolletta, e fame di prodotti finanziari sicuri, come sono anche i nostri titoli di Stato“. Da un punto di vista strettamente economico, fa notare l’economista, ci troviamo di fronte a due possibili scenari. Uno che si verifichi una ripresa economica sostenuta con una maggiore inflazione, in tal caso il peso del debito diminuirebbe automaticamente, visto che in valori assoluti le somme da rimborsare rimangono le stesse ma il loro valore reale si riduce nel tempo. L’altro è che questo non accada e, in tal caso, le banche centrali possono continuare a mantenere i tassi sui livelli attuali e a comprare titoli.

“Il ritorno all’austerità sarebbe una sciagura e ne conseguirebbero tensioni sociali. Penso che ripristinare i vincoli di bilancio precedenti alla pandemia sia improponibile”, ragiona Cipolletta che è però scettico sulla possibilità che la Banca centrali annulli i debiti degli Stati di cui detiene ormai una parte significativa avendo acquistato titoli prima e durante la pandemia. “Se la Bce continua a fare il suo lavoro non ce n’è bisogno, spiega l’economista. Anzi, l’annullamento autorizzerebbe poi la richiesta di misure di austerità e tagli alla spesa molto più severe”.

Postilla: il patto di stabilità chiede ai paesi euro di portare il debito sotto al 60% del Pil. Ma non esistono particolari ragioni economiche che hanno determinato questa soglia. In origine fu, molto banalmente, la media aritmetica dei debiti dei futuri paesi membri. Fissare una soglia ottimale o tollerabile di debito è impresa ardua. Esistono paesi finiti in default (scelta, di nuovo, spesso politica) con debiti inferiori al 40% del Pil come in passato l’Ucraina. Altri, come il Giappone, che convivono serenamente con debiti superiori al 200%. Nel momento della nascita della moneta unica l’Europa ha pensato di poter affidare il controllo dei debiti sovrani al mercato, “liberando” le banche centrali. Le altre grandi potenze annuivano e sogghignavano ma Bruxelles era vittima, più o meno consapevole, di un’infatuazione mercatista. La sveglia è arrivata in fretta. Vista la malaparata il Vecchio Continente è stata costretto a fare retromarcia: con buona pace dei regolamenti ufficiali oggi la Banca centrale europea fa lo stesso “sporco” lavoro delle sue “sorelle”. Tiene sotto controllo il costo dei debiti pubblici consentendo ai governi di fare politica.

Altro che cicala, Italia la più formica tra le formiche – Checché se ne dica l’Italia è stata negli anni uno dei membri più virtuosi dell’Unione monetaria. Tra il 1995 e il 2008 il paese ha tenuto un attivo di bilancio primario in media del 3% del Pil. Il saldo primario è la differenza tra tutto quanto un paese incassa e quello che spende, prima di pagare gli interessi sul suo debito pubblico. Nei dieci anni seguenti il surplus si è ridotto ma è rimasto in attivo (media dell’1,3%) nel difficile decennio 2009-2018. Nessun altro paese ha fatto lo stesso. Tra il 2008 e il 2018 la Francia ha inanellato deficit primari in media del 2% l’anno. Ma questo ha permesso anche a Parigi di immettere nell’economia qualcosa come 461 miliardi di euro mentre Roma ha “drenato” 227 miliardi di euro. E anche così che il Pil pro capite italiano, che a metà degli anni ’90 aveva quasi agganciato quello francese arrivando al 97%, è precipitato negli anni seguenti all‘82% di quello transalpino. E quindi domanda interna cronicamente fiacca e crescita anemica.

L’Italia ha gravi inefficienze, certo, ma anche perché spende meno degli altri praticamente per tutto (questo non significa che non si potrebbe spendere meglio). Spende meno per la scuola, per la sanità, per la pubblica amministrazione, per la ricerca. L’unica grande voce di spesa sono le pensioni ma non perché siano superiori a quelle di altri paesi. La spesa è frutto sì di scelte “allegre” del passato, ma anche di fattori demografici. Il paese ha dovuto convivere con una moneta più forte rispetto alle sue caratteristiche economiche. Dall’euro ha ricevuto ma ha anche sacrificato molto. Chiedere di più è legittimo.

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