Ma come? Prodotto interno lordo in calo del 10%, deficit al 10% del Pil, debito vicino al 160%. E l’agenzia di rating Standard & Poor’s, non solo conferma il suo giudizio sull’Italia a BBB ma migliora persino l’outlook, ossia quelle che a suo giudizio sono le prospettive per il paese da qui a 6 mesi e più. La decisione ha sorpreso anche gli analisti finanziari. “Sebbene il mercato non si attendesse un possibile downgrade (riduzione del voto, ndr) si tratta di una notizia comunque positiva e in parte inaspettata in quanto evita un peggioramento della percezione del rischio Paese, in particolare del settore finanziario: l`esposizione ai titoli di Stato delle banche italiane, ad esempio, ha raggiunto a luglio circa 440 miliardi, il livello più alto mai registrato dal 1998″, rileva Equita. La revisione “è una gradita sorpresa in un momento in cui le agenzie di rating devono calibrare l’impatto a breve termine del Covid-19 sulla finanza pubblica” in quanto “riduce i rischi a breve termine che l’Italia scenda al di sotto dell’investment grade (ossia un investimento che offre buoni margini di sicurezza, Ndr)” con l’effetto di mettere “a dura prova gli sforzi della Bce per tenere sotto controllo le condizioni dei finanziamenti” ha dichiarato Annalisa Piazza di Mfs.

La spiegazione dell’agenzia di rating – S&P è l’agenzia di rating più importante del mondo insieme a Moody’s. Statunitense, è controllata da grossi fondi come Vanguard, Blackrock o Fidelity ed è famosa anche per aver affibbiato il massimo dei voti a titoli poi collassati nella crisi subprime o per aver avvisato che l’Argentina sarebbe fallita…dopo che era fallita. Non proprio un oracolo infallibile. Secondo Standard and Poor’s le capacità dell’Italia di ripagare i suoi debiti oggi sono “adeguate”. Eppure, in questi anni era stato tutto un continuo ripetere da parte dei “guardiani del debito” che l’indebitamento doveva scendere, le spese ridursi, il paese essere riformato (leggi mercato del lavoro ancora più flessibile). Dal 2011 in poi S&P non ha fatto altro che abbassare il suo voto sull’affidabilità italiana, salvo un piccolo ritocco al rialzo nel 2018. Ora che il debito sale, la svolta. Nel suo comunicato l’agenzia motiva la sua decisione con più considerazioni. Ci sono i sostegni messi in campo dall’Unione europea (Recovery fund etc), l’azione di sostegno della Banca centrale europea che comprando titoli di Stato ne tiene bassi i rendimenti. Ma ci sono anche le “straordinarie misure di bilancio” introdotte dal governo. Insieme, questi fattori “nonostante l’incertezza economica”, danno alle autorità italiane la possibilità di far ripartire la crescita economica e invertire il deterioramento dei suoi conti pubblici. Austerità, chi era costei? Fino a ieri i conti non dovevano essere rimessi in carreggiata riducendola spesa? Qui si fa esattamente l’opposto. E il risultato, secondo Standard and Poor’s è quello di….migliorare i conti pubblici.

Ma nel 2017 le idee erano un po’ diverse – Leggiamo come nel 2017 la stessa Standard and Poor’s analizzava la situazione italiana paventando la possibilità di un futuro ulteriore abbassamento del voto. “Potremmo ridurre il nostro rating se ci rendessimo conto che il governo non è in grado di aumentare il ritmo della crescita e ridurre un debito pubblico che rimane estremamente elevato. Questo potrebbe accadere se le rigidità del lavoro (difficoltà di licenziare, ndr), dei servizi e in altri mercati, che sinora hanno zavorrato la crescita, dovessero persistere”. Siamo al cortocircuito. Cosa è cambiato nel frattempo? Due cose. Da un lato un atteggiamento più solidaristico tra i paesi europei che si è fatto faticosamente strada, nonostante la riottosità di alcuni paesi, nei mesi della pandemia. E soprattutto la disponibilità della Banca centrale europea a farsi entro certi limiti carico dell’indebitamento dei paesi euro continuando ad acquistarne i titoli. Prima di questo avevano bisogno soprattutto i paesi finanziariamente più malmessi. Ora che il male è comune….è un mezzo gaudio.

Questo ci insegna però due cose. La prima è come organismi internazionale, Fondo monetario internazionale in primis, e grossi soggetti finanziari, stiano rapidamente abdicando a quelli che fino a qualche tempo fa erano i loro principi guida per riscoprire un approccio “alla Keynes”. Si va dove tira il vento. La seconda è come le cifre della finanza pubblica vadano sempre lette anche in base al contesto. In assoluto è molto difficile dire se quando un debito è troppo alto. Ci sono paesi che fanno default con debiti al 30% del Pil (Ucraina) e stati che convivono abbastanza serenamente con debiti sopra al 200% (Giappone). E decidere se uno stato deve e/o può spendere è anche, sempre, una questione politica. Non esistono formulette magiche che spieghino quando una spesa è troppo alta. O meglio, esistono ma le loro variabili sono influenzate da fattori che vanno al di là della pura economia. Intanto il nostro ministero del Tesoro, giustamente, ne approfitta. Come ha spiegato al Financial Times il responsabile del debito Davide Iacovoni, vista la perdurante “fame” di titoli di Stato, l’Italia sta piazzando sul mercato bond a lunga scadenza con l’obiettivo di allungare la durata media del nostro debito pubblico, attualmente di poco inferiore ai 7 anni. Più la scandenza media si allunga meno un paese è esposto agli alti e bassi dei mercati e può pianificare meglio le sue mosse.

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