Su, molto su. Corre più delle attese l’inflazione statunitense che ad aprile raggiunge il 4,2% contro il 3,6% atteso dagli analisti e ben il 2% in più rispetto solo allo scorso marzo. L’incremento dei prezzi al consumo è il più marcato dal 2008. Escluse le componenti più volatili, ovvero i prezzi dei beni energetici e alimentari, il dato è salito al 3% , più del 2,3% atteso e quasi il doppio dell’ 1,6% di marzo.

L’inflazione è il grande spauracchio di mercati e banche centrali di questi ultimi tempi. Nei giorni scorsi le borse hanno accusato cali significativi proprio in risposta ai segnali di una crescente pressione sui prezzi. Una delle ragioni per cui l’inflazione sale è la quantità di moneta che è in circolazione in un sistema economico. Le banche centrali possono aumentarla o ridurla attraverso diverse leve. La più classica è quella dei tassi di interesse, alzandoli la moneta si riduce. Ma c’è un grossissimo ma. Così facendo si frena la crescita dell’economia perché tanta moneta in circolazione significa anche facilità di avere prestiti a buon mercato per fare acquisti (le famiglie) e spingere i consumi e/o per fare investimenti (le aziende) e aumentare la produzione.

Caliamo queste considerazioni nel contesto attuale. Dalla crisi del 2008 le grandi banche centrali (Federal Reserve e Banca centrale europea su tutte) non hanno praticamente mai smesso di pompare moneta nell’economia. I tassi sono a zero o addirittura negativi. Ogni mese vengono acquistati titoli di Stato per decine di miliardi di dollari ed euro. Una banca centrale li compra da banche e fondi pagando con moneta che “crea dal nulla”. Quelle attuali vengono, non a caso, definite politiche monetarie ultra espansive. In questo modo l’economia è stata spinta a risollevarsi, le Borse hanno continuato a crescere. A fine 2018 la Fed fece un timido tentativo per iniziare a stringere i cordoni della borsa, quello che in gergo viene chiamato “tapering”. Fu un mezzo disastro con gli indici di Wall Street (e a cascata di tutte le altre borse) in forte discesa. Tanto che la banca centrale statunitense fu costretta a tornare rapidamente sui suoi passi.

Fino ad ora però l’inflazione non aveva dato particolari noie alle autorità monetarie, anzi, il problema era l’opposto. Troppo bassa, soprattutto in Europa. A spingere in prezzi non è infatti solo la quantità di moneta ma anche la velocità con cui questa circola che è un altro modo per dire il ritmo con cui cresce un’economia e salgono i consumi. Come hanno fatto notare diversi economisti, a questi anni di abbondanza di moneta, non ha fatto riscontro un incremento delle buste paga. I salari non sono cresciuti, i soldi a disposizione delle famiglie neanche e quindi i consumi restano fiacchi.

La cavalcata delle materie prime. Petrolio + 97%, acciaio + 123% – Cosa è cambiato adesso? Due cose. La prima è che a quella delle banche centrale si sono affiancate le politiche dei governi. Piani da migliaia di miliardi di dollari per sostenere l’economia nella ripresa post pandemia. E, spingi spingi spingi, prima o poi qualcosa si muove e accelera. Questo ha generato anche una crescente richiesta di materie prime necessarie per produrre. Una dinamica che ha coinvolto tutte le “commodities”, dai metalli, al petrolio ai beni alimentari. Oggi il greggio costa il doppio di un anno fa, il gas il 70% in più. Il prezzo dell’acciaio è salito del 123%, quello del rame (termometro dell’attività industriale della Cina che assorbe olter la metà della produzione globale) il 98%. Le quotazioni del grano sono cresciute del 50%, quelle del mais del 141%, la soia segna un + 94%. Numeri, questi ultimi, particolarmente allarmanti anche per quanto riguarda le possibili ricadute sociali sulle popolazioni dei paesi più poveri. La corsa dei prezzi ha subito un’accelerazione negli ultimi due mesi spinta anche dal soffio della speculazione che non crea alccunchè dal nulla ma esaspera fenomeni innescati da cause reali.

Le banche centrali, per ora, ostentano calma. La convinzione è che si tratti di fiammate inflazionistiche temporanee, destinate a rientrare una volta che questo riassestamento post- pandemico della pandemia sarà completato. Ci sono ritardi da recuperare, da qui l’abbuffata di materie prime ma i cosiddetti “fondamentali”, a cominciare appunto dalle retribuzioni restano sotto controllo. Ma i mercati hanno paura. Se l’inflazione sale i rendimenti, già bassissimi, offerti dai titoli di Stato diventano in termini reali ancora più insignificanti. Se le banche centrali dovessero intervenire, diventando un po’ meno espansive, le borse ne risentirebbero. In prospettiva questo pone seri problemi anche per gli Stati e i loro debiti pubblici. In teoria un po’ di inflazione fa bene perché aiuta a ridurre il valore reale dei soldi da rimborsare agli investitori. Ma i debiti di questi anni, e soprattutto, quelli ingenti contratti durante la pandemia sono sostenibili proprio grazie a condizioni monetarie ultra favorevoli. Se i tassi riprendessero a salire i dolori potrebbero essere significativi anche per le casse pubbliche. A cominciare da quelle italiane.

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