Le due province congolesi del Nord Kivu e dell’Ituri saranno in stato d’assedio a partire dal 6 maggio e per la durata di un mese, prorogabile: la zona più instabile della Repubblica Democratica del Congo, proprio dove sono stati uccisi il nostro ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, sarà sottoposta dunque a misure inedite.
La decisione senza precedenti era stata annunciata dal presidente Félix Tshisekedi la notte fra il 30 aprile e il 1 maggio, al termine del primo consiglio dei ministri del nuovo governo. Ma ancora non se ne conoscevano i contorni: lo stato d’assedio, infatti, non è mai stato applicato prima, pur essendo previsto dall’articolo 85 della Costituzione quando “gravi circostanze minacciano, in modo immediato, l’indipendenza o l’integrità del territorio nazionale, o quando causano l’interruzione del regolare funzionamento del istituzioni”.

Lunedì sera, Tshisekedi ha rivolto un discorso alla nazione, chiedendo la massima collaborazione e un atteggiamento responsabile alla popolazione, alla classe politica, alla diaspora e persino ai mezzi d’informazione per sostenere tali misure eccezionali, che hanno come scopo dichiarato quello di mettere a tacere una volta per tutte i gruppi armati che infestano le due province. Alla popolazione locale, l’invito anche a denunciare tutti i “nemici del popolo” e tutte le complicità, a qualunque livello: “I nostri valorosi militari devono essere sostenuti da una presa di coscienza collettiva di tutti i connazionali” ha esortato Tshisekedi.

Al termine del discorso sono state rese note le due ordinanze che concretizzano le misure dello stato d’assedio: tutte le autorità civili saranno sospese e sostituite temporaneamente da quelle militari. Governatori, assemblee provinciali, tribunali civili continueranno a ricevere ciò che spetta loro, ma perderanno temporaneamente ogni potere e capacità decisionale.

E il 4 maggio sono stati svelati i nomi dei prescelti: in Ituri governatore militare sarà il generale Johnny Luboya N’Kashama, suo vice Alongabony Bangadiso; in Nord Kivu nominato governatore militare il generale Constant Ndima Kongba, affiancato dal vicegovernatore Romuald Ekuka Lipopo. I prescelti sono sì persone con un curriculum non “sporcato” da accuse, tuttavia sono militari usciti dalle file delle ribellioni: Luboya arriva dall’Rcd/Goma, che durante la guerra comandava di fatto la parte orientale del paese, in accordo con il Rwanda, e Ndima giunge dall’Mlc, movimento vicino all’Uganda, che durante la guerra si era macchiato di diversi crimini contro i civili. Nomine dunque ambivalenti: se da un lato si presume che questi ufficiali conoscano bene il difficile terreno, dall’altro ci si domanda se la popolazione si fiderà e se saranno in grado di soddisfare le attese.

Gli ufficiali avranno poteri eccezionali, fra cui perquisizioni diurne e notturne, arresti, divieto di pubblicazione, divieto di movimento dei cittadini. Qualunque crimine sarà giudicato dalla giustizia militare e l’immunità di cui godono i funzionari sarà sospesa.

Tshisekedi, che ha dichiarato ieri di voler trovare una “soluzione definitiva alla situazione inaccettabile nell’est del Paese”, la settimana scorsa aveva compiuto un viaggio di due giorni a Parigi, incontrando Emmanuel Macron e chiedendogli sostegno per sradicare in particolare le Adf, il gruppo armato da poco finito nella lista nera delle organizzazioni islamiste terroriste del Dipartimenti di Stato Usa. E mentre Tshisekedi era in Francia, a Beni gli studenti hanno manifestato per una settimana con un sit-in davanti al municipio, per chiedere una visita di persona del il presidente e inoltre la partenza della Missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco), presente in forze da anni e accusata di inefficienza.

Non sono solo loro a preoccupare, però. Le Adf sono il gruppo più spietato, ma nel solo Nord Kivu l’ultimo “censimento” realizzato dal Kivu Security Tracker ha contato 122 gruppi armati. Un numero più ridotto si muove in Ituri, dove tuttavia l’insicurezza è notevolmente aumentata dal 2019, in particolare a causa di un gruppo chiamato Codeco. Secondo un rapporto della Cenco (la Conferenza Episcopale Congolese), solo nel 2020 sono state uccise 2mila persone in Ituri, addirittura 6mila attorno a Beni, area d’azione delle Adf, e sono oltre 1,2 milioni i congolesi sfollati solo nel 2020 nelle province del Nord Kivu e dell’Ituri.

Se dunque da un lato questa decisione del presidente Tshisekedi ha suscitato la speranza che – a fronte di una rinuncia temporanea alle libertà individuali e democratiche – si possa finalmente ottenere una vittoria reale e definitiva contro i gruppi armati, dall’altro sono in molti a essere preoccupati. Da più parti si fa notare che le Fardc (ovvero, le Forze Armate della Rd Congo) non sono un esercito ben formato e disciplinato e che anzi, addirittura, in alcuni casi si sospettano infiltrazioni esterne, manipolazioni, doppiogiochismi.

Come spiega bene la Lucha (Lutte pour le Changement), movimento nonviolento di società civile, che all’indomani dell’annuncio dello stato d’assedio diffondeva un comunicato nel quale si legge fra l’altro: “Da anni chiediamo azioni concrete da parte delle autorità e delle Nazioni Unite per porre fine ai massacri di civili in questa parte del Paese (…) Tuttavia, la decisione (…) solleva più domande e preoccupazioni di quanto non fornisca garanzie”.

La Lucha sottolinea l’esistenza, fra i ranghi delle Fardc, di “ufficiali criminali o affaristi”, o di autori di violazioni dei diritti umani, ma mette anche in luce la mancanza di salario, razioni e anche di munizioni per le stesse Fardc. Gli attivisti temono che “questa decisione sia una misura cosmetica intesa a dare l’impressione che si stia agendo per mettere fine delle stragi, quando in realtà si sta mantenendo lo status quo o peggiorando anche la situazione. Limitare ulteriormente i diritti e le libertà dei cittadini in questa regione non significa risolverne i problemi, ma crearne di nuovi”.

Le denunce non vengono solo dalla società civile: secondo le Nazioni Unite, ci sono più di sette esecuzioni ogni giorno, sei da parte di gruppi armati, una da parte delle forze di sicurezza. Tra febbraio e marzo, l’ Ufficio congiunto dei diritti umani delle Nazioni Unite ha registrato un aumento del 127% delle violazioni commesse dall’esercito, del 64% dalla polizia nazionale, principalmente nell’est del paese.

Intanto, proprio ieri, giornata internazionale per la libertà di stampa, l’ong congolese Jed (Journaliste en Danger) ha pubblicato un rapporto secondo cui, dall’insediamento di Félix Tshisekedi a capo dello Stato, si sono registrati 228 casi di attentati alla libertà di stampa; dall’inizio del 2021, i casi sono almeno 47, fra cui 5 giornalisti arrestati, 9 aggrediti e torturati, uno scomparso.

Aggiornato alle 14.58 del 6 maggio 2021

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