“È davvero una nuova alba. Come compagnia Eco di fondo non possiamo che ringraziare il Teatro Elfo Puccini che ha scelto di riprogrammarci come primo spettacolo della Sala Fassbinder (in scena fino al 9 maggio, nda) e soprattutto vogliamo ringraziare voi, cari spettatrici e spettatori, che avete scelto di esserci». Per parlarvi de La notte di Antigone, regia di Giacomo Ferraù (drammaturgia G. Ferraù e Giulia Viana, con Edoardo Barbone, Enzo Curcurù, G. Ferraù, Ilaria Longo e G. Viana), abbiamo deciso di cominciare dalla ‘fine’, da questo messaggio, venuto dopo i secondi di silenzio necessari come tempo di metabolizzazione e meritati applausi. Con una grande commozione nel cuore per ciò a cui avevamo appena assistito e per quell’esserci, immaginiamo che chiunque sia stato in sala il 4 maggio abbia portato con sé quel “è una nuova alba”. Questa percezione l’abbiamo avvertita lungo tutto il corso della pièce, per la storia privata e universale che veniva raccontata, ma anche per il modo di farlo. Al contempo è l’auspicio che artisti, maestranze e pubblico desiderano: che non si chiuda più, ma si ricominci, magari con nuovi presupposti. Ma torniamo ai primi minuti: la terra trema come un ‘terremoto’ che arriva in casa e ti travolge. Il vento non scaccia via tutto, anzi, è talmente forte da non riuscire a far porre il lenzuolo sul corpo. L’immagine è lontana, ma chiara – un ‘culto’ della sepoltura sacro per gli antichi e molto richiamato nella tragedia.
“Fratello – corda – legame – radici – terra – sangue… verità, insabbiare la verità, nero – morte, nero – buio”: la nostra Antigone (visceralmente incarnata da Giulia Viana) parte con un gioco di associazioni, è in un semicerchio che nasconde più strati. Indossa i pantaloni neri e la camicia bianca come spesso abbiamo visto Ilaria Cucchi. Solo lei e suo fratello – scopriremo di lì a poco – possono varcare la soglia di quella che era la loro camera da letto da piccoli e che assumerà diversi livelli di significato. Tutti gli altri intorno, in nero, compresi i genitori, restano fuori, al massimo sul limite. Ciascuno di noi conosce la vicenda di Stefano Cucchi e ha potuto osservare la determinazione di sua sorella in più circostanze che ‘è dovuta o ha scelto di diventare un’Antigone’: la peculiarità di questo spettacolo è come riesca a rendere universale una storia personale, con il classico greco di Sofocle che viene richiamato sottilmente, insieme ad altre versioni dell’Antigone (come quella di Jean Anouilh). Non vengono fatti nomi reali, ma la platea si trova di fronte a una sorella e a un fratello: lei, “‘la rompiballe perfettina’”, dilaniata dal dolore e, al contempo, decisa a combattere la propria battaglia; lui che non amava le regole. “È come se avessi avuto due fratelli, quando sei tornato dalla comunità chi eri?” s’interroga nella notte in cui deve decidere se mostrare o meno le foto del corpo, anche se in cuor suo ha già scelto. Lui in una continua battaglia con se stesso ed è qui che la drammaturgia gioca con l’archetipo del doppio, con movimenti scenici che non fanno distogliere l’attenzione neanche per un attimo. “Correre, correre, tirare a pugni. Ti allenavi a non cadere” sottolinea la voce di una sorella che non si dà pace, che si sente in colpa per non averlo potuto salvare e che, allo stesso tempo, ricorda anche i momenti di gioco mentre preparavano i fiori di carta per la madre.
Sul piano della messa in scena La notte di Antigone sfrutta l’idea sofoclea dei muri, lì era la sorella a essere murata viva, anche in questo caso viene evocata soprattutto sul piano mediatico e della solitudine. Ma i sette muri (capaci di far intravedere le ombre o far passare spiragli di luce) vogliono rappresentare pure quelli che Stefano, in quanto figlio e fratello, ergeva. Una nota particolare di merito va alla nostra Antigone in un monologo da pelle d’oca, in cui sposta con rabbia le piastrelle del pavimento e urla – senza esagerare – come suo fratello sia ormai di tutti. “Volete vedere l’ultimo degli ultimi?”. Chi ha avuto modo di assistere ad altri lavori di questa compagnia riconoscerà la mano delicata e profonda: pochi e precisi elementi scenici per accarezzare il cuore o dare un pugno nello stomaco allo spettatore di turno. Le botte subìte dal ragazzo vengono evocate, ciò a cui si assiste è un corpo su un plexiglas (autopsia), portato via da un uomo di cui non si vede il volto. E non è casuale che chi dà volto al padre impersonifichi anche Creonte (E. Curcurù): “Ogni tanto qualcuno si sveglia e si mette in testa di fare Antigone”. Cui lei risponde: “Credevo in te (in quanto padre/Stato, nda) […] voglio che la giustizia porti verità”. “Che si alzino le luci, che inizi lo spettacolo” chiosa Creonte. Mentre lei (con un’immagine che non vi riveliamo) asserisce: “E’ l’alba adesso, è tempo di andare […] come in ogni nuovo inizio bisogna rinominare” e come ogni re-inizio si chiude il cerchio ‘magico’.
“Stiamo ripensando le strutture teatrali che abbiamo dato per scontate come il contatto, la vicinanza tra noi in scena, la prossimità col pubblico fino allo sfondamento della quarta parete. Abbiamo davanti un cambiamento epocale e, probabilmente, si nota nel nostro settore più di qualsiasi altro perché abbiamo a che fare con occhi negli occhi, con la mimica e con la presenza quindi con tutto quello che questa pandemia ha messo in discussione” – ha raccontato il regista Giacomo Ferraù. Che aggiunge: “Anche gli spettatori sentono quella sottile emozione che è anche un sottile riconoscersi momento per momento. È stato come un ‘primo giorno di teatro’” Risuona la frase “questo spazio è sacro” detto da Creonte, un’espressione che si associa immediatamente al teatro.
La potenza de La notte di Antigone sta nell’aver dato voce e corpo alla visione di Ilaria Cucchi, “che non sa, ed è questa la ragione per cui non si vede il carcere di Stefano, ma solo l’autopsia”, ha spiegato Ferraù svelando di essersi basato, in particolare, sul libro Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello (edito da Rizzoli). “Di questo spettacolo vorrei che arrivasse il valore dell’ascolto e del contatto perché è la base di questa storia e di fronte al mutamento che stiamo attraversando ci terrei che riuscissimo a comunicare il valore dell’essere presente: Ilaria è sempre stata presente per Stefano, addirittura oltre la sua vita e oltre ogni immaginazione. Essere presente significa scintilla di comprensione e di amore. Il valore della presenza può essere il motore dell’esistenza. Come tutto il teatro è basato su eros e thanatos e, quindi, su assenza e presenza: forse l’assenza di un fratello o forse l’assenza di giustizia o forse la volontà e la fiducia innata in un sistema possono smuovere le coscienze. Questo mi piacerebbe che passasse: anche una singola persona con la propria storia può mutare il mondo intorno e lo si deve fare in presenza, non si può delegare. Il cambiamento del mondo spetta a noi» e, in fondo, è anche l’assunzione di responsabilità che si devono prendere gli artisti.
Foto di Lorenza Daverio